Vuoi diventare scienziato? Studia latino e greco

LUGANO - Il primo punto è questo, ben definito dalle parole di Hofmannsthal: «Un'epoca a cui non sembrasse valer più la pena di occuparsi del passato esprimerebbe in tal modo la sua disperazione». Come dargli torto, oggi che il passato s'è ridotto, nel migliore dei casi, a cisterna di slogan per politici di folklore, webbisti copywriter e sedicenti «creativi» dell'ultimo momento? Il secondo punto è nell'osservazione di Anatole France: «Per digerire il sapere, bisogna averlo mangiato con appetito». Anche qui, siamo sicuri che i nostri giovani siano in possesso di una fame così autentica? O non è forse il caso di diagnosticare una sterile bulimia, sovente saziata online? E la scuola, che fa? Domande irte, scoscese. Le due citazioni le abbiamo prese da Propedeutica al latino universitario di Traina e Bernardi Perini, manuale oramai leggendario, riletto prima di stilare queste due pagine dedicate allo status delle lingue antiche in Svizzera e nel nostro cantone. Attenzione particolare s'è fatta al latino, la cui valorizzazione non di facciata potrebbe fare da bussola per pensare in modo diverso rispetto all'andazzo globish, sicuro livellatore delle differenze tra popoli e pertanto garante del declino culturale europeo. Negli ultimi mesi la lingua di Lucrezio ha mandato segnali: forse non tutto è perduto.
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Da qualche settimana è nelle librerie la versione in latino del fortunatissimo Diario di una schiappa (editrice Il Castoro, pagg. 220, euro 14) di Jeff Kinney. Altra acqua al mulino delle vendite: già 150 milioni di copie per tutta la serie omonima, tradotta in 45 lingue. Non bastasse, questi Commentarii de Inepto Puero si fregiano di un traduttore perfetto: quel monsignor Daniel Gallagher che lavora presso l'Ufficio per le Lettere Latine della Segreteria di Stato vaticana e che cura il profilo Twitter in latino di Papa Francesco (a cui, durante l'Udienza Generale del 10 giugno scorso, è stata consegnata la copia n. 1 della speciale tiratura limitata del Puer).
Non era certo un'impresa facile tradurre in latino le espressioni gergali e colloquiali, i neologismi e le battute contenute nelle avventure del protagonista Greg «Gregorius» Heffley: ketchup, cowboy, musica metal non sono termini propriamente rintracciabili, in caso di bisogna, nell'Eneide. Ma Gallagher non s'è lasciato intimorire e con fondati ragionamenti ha reso: musica metallica gravis, armentarius, ketsupum. E via così: l'insopportabile «dolcetto o scherzetto» dei bimbi yankee (e non solo) ad Halloween è diventato «fraus aut frustum», mentre il triciclo con ruota più grande davanti e due piccole dietro s'è trasfigurato in un orgoglioso trirota magna.
«Leggendo l'originale – ha raccontato Gallagher – ho pensato che sarebbe stata una sfida interessante e l'occasione per promuovere studio e insegnamento del latino». Di fatto, i Commentarii – edizione unica per tutto il mondo curata dal Castoro con l'editore statunitense Abrams – sono già stati adottati da alcune scuole europee. E dal 26 ottobre partirà su Twitter una singolare competizione di «riscrittura»: attraverso l'account TwLetteratura e l'hashtag #twpuer si potrà riassumere, recensire e parafrasare i Commentarii a colpi di 140 caratteri per volta. In latino, ovviamente. Una giuria segnalerà ogni settimana, fino a dicembre, i tre cinguettii migliori per correttezza grammaticale e creatività, che siano di singoli o di intere classi di studenti. Alla fine, gran finale e premiazione con monsignor Gallagher (e magari ci scappa pure una benedizione).
A sentir tutto ciò parrebbe che il latino sia lì lì per diventare la nuova lingua della mondializzazione e che editoria mass market e social network non siano poi quella discarica culturale tanto stigmatizzata dagli umanisti nostalgici che trascorrono le sere a cogitare su Leon Battista Alberti. È davvero così?
Ragioni per esser contenti, ma non per dare una risposta positiva alla domanda, negli ultimi anni ce ne sono state: una sfilza di versioni latine dalla saga di J.K. Rowling – Harrius Potter et Philosophi Lapis e Harrius Potter et Camera Secretorum, una pure in greco, Areios Poter kai he tou philosophou lithos – a cui si vanno ad aggiungere Regulus. Vel Pueri Soli Sapiunt di Antonius a Sancto Exuperio, Hobbitus Ille di Tolkien, Alicia in Terra Mirabili di Ludovicus Carroll, traduzioni da Winnie The Pooh (Winnie Ille Pu) e dai fumetti Disney, con zio Paperone avunculus Scrugulus e Paperino Donaldus Anas.
Tuttavia la risacca delle lingue antiche l'abbiamo sotto gli occhi. Se il greco conserva i suoi eruditi cultori, sempre pochi, il latino, in Occidente lingua quasi universale per secoli, è in caduta libera. Prendiamo la Chiesa: si ritiene lo abbia tutt'oggi come lingua ufficiale e ancora nel 2001 la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ribadiva l'obbligo (articolo 23 della Instructio quinta) di usarlo per il testo a fronte di traduzioni bibliche e testi liturgici. Nel 2007 Benedetto XVI ne ravvivava l'uso durante la messa: non è più necessario il permesso del vescovo, basta la richiesta di un gruppo di fedeli. Lo stesso Papa che diede, il 28 febbraio 2013, le dimissioni in latino: quel sofferto «declaro me ministerio... renuntiare» che ha fatto sobbalzare redazioni e fedeli di mezzo mondo, ma prima di tutti la vaticanista Giovanna Chirri, assurta agli onori della professione per aver compreso in diretta e in anticipo sui colleghi, grazie alla sua conoscenza dell'«obsoleto» latino, ciò che stava per accadere quel fatidico giorno. E aver così portato a casa uno scoop mondiale.
Son questi pochi emozionanti aneddoti. Per il resto, nella Chiesa e nella Santa Sede, a farla da padrona è l'italiano, la cui conoscenza, insieme a quella del latino e di almeno una lingua moderna, è richiesta a chi vuole essere assunto ai livelli più alti della Curia romana, stando al Regolamento del 1999. Per dirla chiaramente, il Vaticano lavora e insegna nella lingua di Dante, o con quel che ne resta (cfr. La chiesa parla italiano di Leonardo Rossi, Limes, 12/2010).
La Svizzera, sul latino, ha allentato la presa con altrettanta sobrietà. «La conoscenza di questa lingua nelle classi colte – ci dice Giancarlo Reggi – è arretrata di molto rispetto alla fine degli anni Settanta. Ma il declino è iniziato prima, nel 1968. La contestazione non c'entra, se non indirettamente. In quell'anno venne riformata l'Ordinanza federale per il riconoscimento dei titoli di maturità cantonale: fu abolito l'obbligo dello studio del latino per accedere a Medicina. Tolto questo, si allentò fino a decadere pure per Giurisprudenza».
Oggi la situazione in Ticino è la seguente: durante la scuola dell'obbligo il latino compare tra le scelte facoltative di III media, dove è ben frequentato, e di IV media, dove subisce qualche flessione. Al liceo il curricolo «classico» continua in prima con greco e latino oppure con il solo latino. In seguito, a partire dalla seconda, è possibile scegliere tra greco e latino per la cosiddetta «opzione specifica», la disciplina che caratterizza il percorso di studio fino all'esame di maturità. Naturalmente, chi sceglie il greco come opzione specifica non abbandona il latino, ma ne deve proseguire lo studio fino alla maturità, senza esame finale ma con il corso di quattro ore settimanali e il programma ad hoc.
«La registrazione condotta lo scorso anno a livello federale – ci dice Lucia Orelli Facchini, docente di greco e di latino al Liceo di Bellinzona – mostra che circa un quinto dei liceali svizzeri che ha la possibilità di sceglierle segue un curriculum con lingue antiche. In Ticino la situazione è altalenante. Se è soddisfacente la frequentazione del latino senza esame di maturità, la scelta dell'opzione specifica rimane di pochi. All'università l'obligatorium del latino tende a diminuire, ma va detto che è soprattutto per motivi di concorrenzialità tra alcune discipline. E perché si vuole attrarre studenti. L'ateneo di Zurigo ha tolto l'obbligo del latino per alcuni indirizzi, ma esso resta per venticinque discipline di Bachelor e Master e per quattro altri programmi di studio di Master».
Tra le pieghe di tale tendenza al ribasso si percepisce l'avanzata dell'inglese «operazionale» della globalizzazione e quello che ormai è diventato un locus classicus: studi umanistici e scienza (leggasi denaro e carriera) non vanno d'accordo. Assunto infondato e furbo, disgregante di una storia lunga un paio di millenni, e smentito dalla realtà. Uno dei migliori scienziati italiani viventi, per dire, il genetista Edoardo Boncinelli, ha dato alle stampe nel 2008 un'ottima traduzione dei lirici greci. Anche il fisico teorico Carlo Rovelli non ha dubbi: «Due libri straordinari, La scoperta della dinamica di Barbour e La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo, mi hanno fatto capire quanto la mia disciplina sia radicata nella scienza e nella filosofia del mondo classico». Nelle parole di Luciano Canfora: «L'antichità è un interlocutore permanente. Il metodo di indagine intuitiva inerente al lavoro su una civiltà remota è una palestra intellettuale indispensabile quale che sia il tipo di scienza moderna si voglia accostare». Non ci piove. Sovente è però la stessa scienza a voler occultare tale legame, per non perdere l'appeal di disciplina «pratica» e per un'innata attitudine alla parcellizzazione dell'umano.
È quindi in controtendenza, ma ragguardevolissimo e slanciato verso il futuro, quanto si tenta di fare qui in Ticino per ricongiungere il latino alla ricerca scientifica. Per esempio, il progetto Monte Ore 2013-14 del Liceo di Bellinzona dal titolo «Quale medicina per la tutela della salute», che ha coinvolto docenti di lingue antiche, biologia e chimica in una serie di lezioni che avrebbero sedotto Ivan Illich e Michel Foucault, tra spagiria e tradizione paracelsiana, alchimia e medicina ippocratico-galenica. Un «pensare diversamente» – peraltro benefico in tempi iatrogeni e claustrofilici come i nostri – che parte proprio da libri e ricette in latino.
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Intervista a LUCIA ORELLI FACCHINI: "Sarebbe bene cominciare già alle medie inferiori"
Lucia Orelli Facchini è docente di greco e di latino al Liceo di Bellinzona, rappresentante dei filologi classici ticinesi nello Schweizerischer Altphilologenverband e membro di comitato dell'Associazione italiana di cultura classica, Delegazione della Svizzera italiana.
Professoressa, e se parlassimo del «futuro del latino»? Sarebbe solo un ossimoro?
«Nessun ossimoro, ma prima facciamo un sorvolo sul presente. In Ticino si fatica a far passare il messaggio fondamentale che il liceo "classico" con greco e latino o con latino come opzione specifica non punta a sfornare iperspecializzati filologi classici, oppure degli studenti, come si sente dire, "non scientifici" e dal profilo indistinto. Ha come obiettivo, invece, una formazione liceale tout court e non penalizza nemmeno coloro che intendono intraprendere una carriera scientifica».
Siamo sicuri?
«Una statistica di una manciata di anni fa, condotta dall'ETH di Zurigo, è eloquente al proposito perché mostra che il profilo "lingue antiche" insieme al profilo "fisica e applicazioni della matematica" (FAM) fa registrare persino alla Basisprüfung del Politecnico i risultati migliori. Il rettore dell'ETH Ralph Eichler lo aveva ribadito: "Wer Latein oder Griechisch hatte, ist oft auch an der ETH gut"».
Una posizione rara.
«Le posso citare allora uno studio guidato nel 2012 dal grecista e matematico Lucius Hartmann della Società svizzera degli insegnanti delle scuole secondarie. Ha potuto dimostrare non solo che esiste un nesso tra le lingue antiche e la matematica, ma che le due discipline si sostengono a vicenda».
Previsioni per il domani, in particolare ticinese?
«Nella scuola media si è appena conclusa la fase di revisione dei piani di formazione imposta dall'adesione del nostro cantone al concordato HarmoS. Il latino vi compare, ma le sue sorti future dipenderanno dagli esiti della riforma "La scuola che verrà". Difficile prevederne ora gli sviluppi, ma l'auspicio è chiaro. L'italiano rimane il latino vivo di oggi, il francese una lingua neolatina, ma anche tedesco e inglese sono lingue indoeuropee. Per tutte queste lingue moderne, obbligatorie nelle scuole medie del cantone, il latino funge da chiave di comprensione profonda».
La nuova riforma potrebbe dunque essere occasione per un passo decisivo?
«Anticipare il latino alle medie inferiori si rivelerebbe utilissimo, anzitutto per l'italiano. Speriamo che se ne tenga conto. A livello liceale si sta tuttavia assistendo alla moltiplicazione delle offerte disciplinari che caratterizzano il curricolo. Questa tendenza segna inevitabilmente un distacco dal modello di formazione liceale come scuola di cultura di base, precedente la riforma '95 degli studi».
Giusto o sbagliato?
«Mettiamola così. Il liceo si sta trasformando in un percorso pre-professionalizzante. Questo è già di per sé molto preoccupante perché ne snatura la vocazione originaria. Di certo non giova a migliorare lo stato di salute delle opzioni specifiche di lingue antiche che puntano proprio al contrario e cioè a mantenere consapevolmente viva e fertile una cultura di base solida e ricchissima. Al liceo si ha l'opportunità di scoprire nei classici, selezionati dal vaglio dei secoli, un patrimonio storico-letterario, politico, filosofico e scientifico a cui è difficile rinunciare».
Ma in fondo, perché no? Perché non possiamo metterlo via e amen?
«Perché è il nostro. Il medico non arriva a diagnosi e terapia senza anamnesi. Vogliamo forse privarci della memoria? Me lo lasci dire con buona pace di Harry Potter e del Diario di una schiappa latinizzati: il latino è quello dei classici dell'antichità greco-romana. Senza dimenticare, come si cerca oggi di trasmettere meglio, quello dei grandi testi latini delle epoche posteriori, fino almeno al Settecento. A questi dobbiamo guardare. Sono inossidabili vettori di bellezza e di intelligenza sui quali vale la pena di sudare, oggi come ieri. E soprattutto restano una formidabile risorsa per capire quello che ci accade intorno. I licei dovrebbero quindi perseverare nel sostenere chi intende conservare la nostra cultura mantenendo il raccordo con il passato. A recidere il filo basta poco, ma le conseguenze sarebbero pesanti».
Più pesanti del non saper parlare inglese?
«Guardi, oggi nessuno intende rinunciare all'inglese, ma parecchi nemmeno rinunciare alle lingue nazionali e alcuni nemmeno alle lingue antiche. È insensato mettere in competizione il greco o il latino con l'inglese. Spesso si crede che la scelta delle lingue antiche al liceo vada necessariamente a scapito dell'inglese. Non è così, perché i licei offrono l'inglese facoltativo. Un grecista, se lo desidera, può scegliere di seguire altre quattro lingue oltre all'italiano. Sono troppe? È meglio pensarla diversamente. Avere l'accesso alle lingue franche d'Occidente degli ultimi duemila anni, greco, latino e inglese, davvero non è niente male per chi crede ancora nel sapere storico».
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Intervista a GIANCARLO REGGI: "Prendiamo esempio da Galileo"
«In Svizzera non siamo messi male, almeno dal punto di vista di quelli che coltivano il latino e il greco con passione e, naturalmente, impegno», ci dice Giancarlo Reggi, filologo e già professore di lingue antiche al Liceo cantonale di Lugano 1. «Ci sono editori – continua –, riviste, collane e fondazioni».
Quali, ad esempio?
«C'è Museum Helveticum, rivista pubblicata dallo Schwabe Verlag di Basilea. C'è la collana Sapheneia, edita a Berna da Peter Lang, che raccoglie tesi di dottorato e altro. Fino al 2011 la collana Sammlung Tusculum, ottima per l'approfondimento scientifico e anche per l'alta divulgazione, era edita da Artemis & Winkler, casa editrice fondata a Zurigo. Vi sono apparsi, tra gli altri, i frammenti presocratici a cura di Laura Gemelli Marciano, nel 2007. In Romandia ci sono poi i colloqui della Fondation Hardt di Ginevra: gli atti, importanti per chiunque sia del settore, vengono pubblicati regolarmente. La Fondation Hardt dispone inoltre di una imporante biblioteca. Sempre a Ginevra c'è la biblioteca della Fondazione Bodmer, nodale per i suoi papiri, che fra l'altro ci hanno permesso di recuperare importanti testi greci non tramandati nel Medioevo. Ci sono poi le pubblicazioni dell'Istituto svizzero di Roma».
Non si è lasciati soli, dunque.
«Direi di no. Tuttavia intuisco quel che sta per dire: la conoscenza del latino arretra a vista d'occhio».
Non è vero?
«Non fa più parte della cultura della classe dirigente. E sì, all'università è marginalizzato, l'obbligo di studiarlo è saltato in diverse facoltà. Oggi l'ateneo più esigente, parlo della facoltà di Lettere, è Zurigo, che alla fine ci guadagna perché c'è una tendenza degli studenti migliori, quelli che non hanno paura del latino, a studiare lì».
Ma che tipo di futuro professionale si prospetta a un latinista?
«Se penso ai miei studenti degli ultimi anni, una parte cospicua è andata a studiare matematica, fisica, biologia, medicina, persino ingegneria meccanica. Mi sta bene. Negli studi, anche nei politecnici federali, hanno successo e disporre di tecnici che abbiano studiato latino o greco è positivo. Per il resto, non possiamo pensare di aver troppi studenti specializzati in filologia classica, i posti di lavoro sono limitati e la flessibilità non è sempre scontata o vantaggiosa».
Talora è proprio impossibile.
«Esatto. Per esempio, un laureato in Lettere classiche può sì fare il giornalista, oltre che l'insegnante, ma non l'avvocato. Tanto meno il medico o l'ingegnere. Insomma, ci sono limiti invalicabili».
Che ne pensa dell'insegnamento in inglese nelle facoltà di lettere?
«Una follia. Non si possono coltivare materie umanistiche che esigono un altissimo senso della sfumatura linguistica adottando una lingua seconda, per così dire, "standard". Penso alla filologia: per certi aspetti è una scienza che tende alla maggior esattezza possibile, tuttavia non si basa su dati quantitativi, più facili da calibrare. Lavora invece sulle sfumature del linguaggio. È impossibile studiarle senza conoscere bene le lingue classiche, va da sé, ma, del pari, è estremamente difficile renderne conto senza disporre di quello strumento fondamentale che è la lingua nativa».
Allora perché «questo» inglese?
«Si vuol attrarre un numero maggiore di studenti. Inutile recriminare. Cerchiamo di navigare nel mare dove ci troviamo e assicuriamoci di offrire almeno una buona scuola e, in ambito accademico, di produrre studi di eccellenza, scientifici o di divulgazione seria».
C'è un'altra vexata quaestio: tra studi classici e scienza non corre buon sangue.
«Le rispondo a partire da uno studio che ho svolto di recente. È in stampa, per la rivista Italia medievale e umanistica, un mio lungo articolo dedicato alla versione latina della Lettera a Cristina di Lorena di Galileo. Un testo finito nel 1615, dopo la prima condanna, ma stampato a Strasburgo solo nel 1636 con a fronte, appunto, la traduzione latina di Elia Diodati, un riformato di Ginevra di origini lucchesi. La mia analisi si concentra su alcune parole chiave».
Può riferircene un paio?
«Neologismi come phaenomenon, introdotti da Copernico e diffusi dalla scuola di Wittenberg. Oppure come systema, mutuati all'astronomia dal linguaggio della musica e della medicina. È un processo che si può seguire, che coinvolge il trattatista di musica Vincenzo Galilei, il padre di Galileo, ma a cui concorrono le versioni rinascimentali in latino delle opere del medico Galeno. Galileo e Keplero sono il bacino di raccolta di questa cultura».
E il cerchio si chiude.
«Esatto. O meglio, si apre. Quello che volevo dire è che la scienza moderna non avrebbe costituito il suo linguaggio senza una solidissima cultura filologica umanistica. In tal senso l'opera di Keplero è esemplare. Che ci siano "due culture" è amaro retaggio dell'idealismo. La cultura è una e più si scende alle radici più ci si rende conto di ciò».