Azzerare per poi andare oltre o lasciare tutto com'è? È questo il dilemma della Banca nazionale svizzera

La Svizzera, si sa, ama la stabilità. Anche quando tutto il mondo ondeggia, la Banca nazionale svizzera (BNS) preferisce muoversi in punta di piedi, con scelte dosate e parole misurate. Eppure, domani – giovedì 20 giugno – potrebbe compiere un passo significativo: azzerare il tasso guida, portandolo dallo 0,25% allo 0%.
I mercati ci credono. La gran parte degli analisti si è già portata avanti, aspettandosi un ulteriore allentamento del costo del denaro. Del resto, i tassi praticati dalle principali banche commerciali per i mutui ipotecari stanno già incorporando questo scenario. La recente inflazione negativa (-0,1% in maggio), il franco forte che continua ad attrarre capitali e allo stesso tempo a zavorrare l’export, in particolare quello manifatturiero, mentre il settore farmaceutico tiene, rafforzano le aspettative di un taglio. A tutto questo si aggiunge un contesto globale segnato da tensioni – non solo commerciali – sempre più ampie e potenzialmente degeneranti. In questo scenario, prudenza e anticipazione diventano virtù fondamentali per una banca centrale come quella svizzera.
Eppure, nulla è scontato. La BNS ha già sorpreso in passato. E potrebbe farlo di nuovo, lasciando tutto com’è. Perché la Svizzera non soffre d’inflazione, ma nemmeno di una deflazione conclamata. I tassi sono già tra i più bassi al mondo. E il presidente della direzione generale, Martin Schlegel, ha più volte sottolineato come la «visione di medio termine» debba prevalere sulla reattività nervosa. La BNS è vigile, non ignora la congiuntura, ma non ha intenzione di lasciarsi trascinare nel vortice dei tassi negativi – se non strettamente necessario. Quei tassi negativi, veri, da -0,25% in giù, restano un’arma di riserva. O, meglio, un ricordo che nessuno ha voglia di rispolverare e che costano a risparmiatori e imprese, comprese quelle bancarie.
Nel frattempo, la banca centrale potrebbe far capire che è pronta ad agire, anche sul fronte valutario. Il franco è troppo forte per chi esporta e troppo amato dai mercati nei momenti di incertezza. L’istituto di emissione continuerà a vigilare sul cambio, forse più di quanto si dica. Da Washington, periodicamente, tornano accuse di manipolazione valutaria. Erano già state sollevate durante la prima presidenza Trump. Poi cadute.
Proprio negli Stati Uniti, oggi la Federal Reserve dovrebbe mantenere fermo il tasso di riferimento al 4,50%, proseguendo con un approccio wait and see. I mercati scommettono quasi unanimemente su una pausa. Ma la Fed è sotto pressione. I conflitti internazionali – come quello sempre più incandescente tra Iran e Israele – il prezzo del petrolio in rialzo, le tariffe commerciali che agitano l’orizzonte globale: tutto contribuisce a tenere alta la tensione. In questo clima, si è riaperto un conflitto mai del tutto sopito, fin dal suo primo mandato, tra Donald Trump e Jerome Powell. Il presidente accusa la Fed di immobilismo, vorrebbe un drastico taglio del costo del denaro anche per alleggerire il peso del debito federale che sta avvicinandosi al 150% del PIL ormai con rendimenti vicini al 5% l’anno. Powell risponde con sobrietà. Ma la linea è netta: niente tagli affrettati. La Fed, sospesa tra un’inflazione ancora sopra il target del 2% e la minaccia della politicizzazione, gioca la partita della credibilità. E non può permettersi di perderla. In un contesto dove le banche centrali sono sotto tiro, tra populismi e pressioni geopolitiche, la Svizzera conserva ancora un privilegio: quello del silenzio e del passo breve. Ma anche il silenzio, a volte, può essere eloquente.