Berna contro Berna

Braccio di ferro fra la Berna federale e la città di Berna sull’uso della Piazza e del cosiddetto “chilometro federale”, la parte della via antistante la sede del Governo e del Parlamento che va dal Bernerhof al Bellevue. Dopo il Consiglio nazionale, anche il Consiglio degli Stati ha approvato una mozione inoltrata dall’Ufficio della Camera bassa che chiede un diritto di co-decisione per i permessi di manifestazione sulla Piazza federale concessi dalla Città durante le Sessioni delle Camere.
Il contenzioso è politicamente simbolico: da un lato una città di Berna sempre più rosso-verde (una tendenza rafforzata dalle recenti elezioni comunali), dall’altra un’Assemblea federale e un Governo la cui maggioranza è di centro-destra. Che le manifestazioni davanti a Palazzo federale possano diventare una dolorosa spina nel fianco per le autorità federali è noto da decenni. Durante la visita del nuovo Primo ministro cinese Li Quiang a Berna all’inizio di quest’anno è riapparso il fantasma di Jiang Zemin che durante la sua visita in Svizzera nel 1999 aveva dovuto ingoiare il rospo di una tumultuosa manifestazione che denunciava la repressione cinese in Tibet davanti a Palazzo federale. Jang Zemin, furibondo per la denuncia (più che giustificata), aveva raggelato gli intimoriti Sette Saggi con le parole “Avete perso un amico” e solo un colpo di genio di Adolf Ogi - che gli offrì con la sua proverbiale affabilità un cristallo delle Alpi - permise di evitare una crisi diplomatica. Manifestamente, le posizioni e gli interessi della Città di Berna e della Confederazione sull’uso del quadrilatero che è il cuore della politica federale divergono. Nel 2021, il Consiglio comunale di Berna ha votato la revoca del divieto di manifestazioni davanti a Palazzo federale durante le Sessioni parlamentari (che risaleva al lontano 1925), autorizzando le manifestazioni, a determinate condizioni. Avrebbero dovuto essere non rumorose e coinvolgere un massimo di 50 persone. Quanto accaduto negli ultimi tre anni dimostra che si trattava soprattutto di aprire una breccia nel divieto. Nella sua richiesta di co-decisione, l’Ufficio del Consiglio nazionale sottolinea che diverse manifestazioni autorizzate negli ultimi anni si sono rivelate a tal punto rumorose (complici l’uso di megafoni) da impedire lo svolgimento normale dei lavori parlamentari. L’autorizzazione è stata data inoltre per comizi politici cui hanno partecipato un numero di persone molto superiore al limite. In alcuni casi i deputati sono stati fischiati e gli è stato impedito l’accesso a Palazzo federale. Il clima era chiaramente intimidatorio. E nel caso di manifestazioni non autorizzate, come quella sul clima del 2020, la città di Berna ha tollerato che i manifestanti si accampassero per tre giorni davanti a Palazzo federale prima di intervenire.
Per l’Ufficio del Consiglio nazionale è chiaro che la Piazza federale è e deve restare uno spazio aperto, ma non ritiene corretto che a decidere dell’uso dello spazio attorno e davanti a Palazzo federale sia esclusivamente la città di Berna. Che la revoca del divieto di manifestare durante le sessioni da parte della città di Berna e l’adozione di un nuovo regolamento che autorizza “piccole dimostrazioni e non rumorose” non sia innocua, ma rientri in una strategia volta a condizionare i lavori parlamentari sembra confermato dalle prese di posizione sul tema dell’attuale capogruppo dei Verdi in Parlamento, la Consigliera nazionale bernese Aline Trede. La politica bernese è stata infatti l’unica ad opporsi alla mozione che chiede una co-decisione Città di Berna-Parlamento sul permesso di manifestazioni durante le sessioni. Già prima del 2021, aveva d’altronde inoltrato diversi atti parlamentari in cui chiedeva la revoca del divieto di manifestare durante le Sessioni. Proposte tutte bocciate dal Parlamento. Trede deplora un pensiero elitario che vuole restringere il diritto di manifestare. Le dimostrazioni sono importanti e soprattutto durante le sessioni - dice - affinché gli eletti non perdano il contatto con il popolo. Obiettivo, quest’ultimo, che appare certamente più che opportuno a condizione che vi siano garanzie affinché i manifestanti autorizzati non pratichino l’intimidazione e/o sbarrino l’accesso degli eletti al Parlamento. Anche perché la democrazia diretta (nell’urna, più che in piazza) ha proprio come scopo quello di ricordare agli eletti che l’ultima parola ce l’ha il popolo.