Commento

Celebrare il 7 ottobre come «resistenza»? Un autogol che fa il gioco di Netanyahu

Le manifestazioni di Torino e Bologna, dove si è celebrato il massacro di civili israeliani, confondono la causa di un popolo con la violenza di Hamas, regalando argomenti alla propaganda di chi giustifica la strage di palestinesi a Gaza
Mattia Sacchi
08.10.2025 09:30

A due anni esatti dagli attacchi del 7 ottobre 2023, alcune piazze italiane si sono riempite di bandiere palestinesi e slogan che inneggiavano alla «resistenza». A Bologna e Torino, centinaia di manifestanti hanno scelto di celebrare quella data — la stessa in cui il mondo aveva assistito al massacro di oltre mille civili israeliani, all’assalto ai kibbutz, ai rapimenti, al terrore nelle case. Il giorno che segnò l’inizio della più grave spirale di violenza in Medio Oriente degli ultimi decenni è stato evocato, da alcuni, come un simbolo di orgoglio.

 «Viva il 7 ottobre, viva la resistenza palestinese». È un messaggio che travolge la logica, prima ancora che la sensibilità. Neanche lo stesso Netanyahu avrebbe potuto sperare in un autogol simile. Trasformare in «resistenza» un attacco deliberato contro la popolazione civile significa capovolgere il senso stesso di quella parola, e inviare un messaggio pericoloso: che la violenza, se rivestita di ideologia, possa diventare accettabile. Si confonde così la lotta per la libertà con la celebrazione della morte, l’idea di autodeterminazione con l’apologia del terrore.

La resistenza — quella vera — è il contrario di questo. È difesa, non vendetta. È il gesto di un popolo che si oppone all’ingiustizia, non l’azione di un gruppo armato che colpisce famiglie nel sonno. È importante ricordarlo: il 7 ottobre non è stato un atto della popolazione palestinese, ma di Hamas, un’organizzazione che usa il terrore anche contro i civili di Gaza, gli stessi che oggi subiscono bombardamenti e privazioni inaccettabili. Confondere la causa di un popolo con l’azione di chi ne tradisce la dignità è un errore morale e politico.

Chi invoca «il diritto alla resistenza con ogni mezzo» senza distinguere tra soldati e civili compie un atto di auto-sabotaggio culturale. Perché ogni mezzo, in guerra come nella pace, non è mai davvero lecito. Chi chiede libertà deve anche accettare le regole che la rendono possibile. Se si cancella questo limite, la causa si confonde con la barbarie che pretende di combattere.

E qui sta il nodo: la sovrapposizione tra il dramma di Gaza e la violenza del 7 ottobre non aiuta a denunciare l’una, ma ne indebolisce la forza morale. Dire «viva il 7 ottobre» non è un grido per la Palestina, è un regalo alla propaganda di chi vuole distruggerla. È offrire a chi governa Israele l’alibi perfetto per bollare ogni voce di dissenso come estremista o antisemita, per giustificare il massacro dei palestinesi a Gaza.

È un autogol politico e simbolico. Tanto più grave perché arriva dopo mesi in cui le piazze europee avevano mostrato che esiste un modo civile, pacifico e potente di schierarsi contro l’ingiustizia. Lo ha ricordato l’esperienza della Flotilla for Gaza, che con la sua azione è riuscita a denunciare il massacro di palestinesi con un gesto non violento e coerente, senza provocazioni né incitamento all’odio. Quella è stata resistenza autentica, capace di muovere coscienze come mai stato fatto finora.

Milioni di persone, in tutto il mondo, hanno chiesto il cessate il fuoco, il rispetto del diritto internazionale, la fine dei bombardamenti. Quelle manifestazioni avevano restituito dignità al dibattito, unendo compassione per Gaza e rispetto per le vittime israeliane. Oggi, invece, un gruppo marginale ma rumoroso ha scelto il linguaggio sbagliato. Non ha cancellato la credibilità del movimento per la pace, ma gli ha inflitto un colpo inutile, confondendo le acque e offrendo spazio agli estremismi di entrambi i fronti.

Ecco perché non si tratta di censura né di diritto di parola. Nessuno mette in discussione la libertà di manifestare, ma nessuna libertà copre la celebrazione del terrore. C’è una differenza sostanziale tra la protesta e la glorificazione della violenza, tra chiedere giustizia e inneggiare alla guerra.

«Resistenza» non può essere sinonimo di sterminio, così come «liberazione» non può coincidere con la strage di innocenti. Chi crede davvero nella causa palestinese dovrebbe essere il primo a difenderla da chi la infanga, a proteggere la dignità del proprio messaggio dal fanatismo.

Perché ogni volta che qualcuno urla «viva il 7 ottobre», non solo offende la memoria delle vittime, ma rende più lontana la pace. Alimenta la visione di un mondo diviso in due blocchi ciechi, incapaci di riconoscere nell’altro un essere umano.

Il 7 ottobre è una ferita che riguarda tutti. Ricordarla dovrebbe servire a evitare che accada ancora, non a giustificarla. Le parole scelte nelle piazze di Bologna e Torino, non hanno reso omaggio a una causa: l’hanno ferita. E con essa, hanno ferito anche l’idea stessa di umanità che dovrebbe unire chi dice di volerla difendere.