Come ti ribalto il free speech: Jimmy Kimmel e il bavaglio MAGA

Jimmy Kimmel, dunque, è stato oscurato e silenziato dal potere? «Solo» per aver osato dire la sua – certo in maniera ironica e, sì, per alcuni sconveniente – su Charlie Kirk o, meglio, sulla reazione dell’universo MAGA all’uccisione dell’attivista conservatore? Al netto dell’esultanza (da stadio) di Donald Trump alla notizia della sospensione della trasmissione di Kimmel, e tenendo presente i dati di audience certo non confortanti, un discorso generale per i cosiddetti late show, il panorama – di per sé – è inquietante: la polarizzazione e l’iperpartigianeria, negli Stati Uniti, stanno complicando e non poco le cose. Al punto che, oggi, è sempre più difficile distinguere tra opinione e provocazione, tra satira e censura, tra dissenso e minaccia. In un senso come nell’altro.
Kimmel, come molti altri comici, ha costruito la sua carriera giocando sul confine tra ironia e critica politica, spesso pungente. Ma in un’epoca in cui ogni parola è decontestualizzata, ripresa, processata sui social e sottoposta a giudizio pubblico in tempo reale, anche l’ironia rischia la squalifica. E quando si invoca la «sospensione» – temporanea o meno – di un comico, non siamo più nel regno dell’intrattenimento: siamo nel cuore del dibattito culturale su che cosa significhi oggi libertà di espressione. O free speech, volendo sbandierare un’espressione cara al citato universo MAGA. Tempi bui, si dirà.
Gli interrogativi di molti, oggi, sono – con i dovuti paragoni – simili a quelli sollevati sulla scia della morte di Kirk. L’uccisione, tragica, dell’influencer di destra si lega a doppio filo al clima di radicalizzazione, all’insofferenza crescente verso l’opinione altrui che, attenzione, non riguarda solo l’America e, in definitiva, all’odio ideologico che, ahinoi, può facilmente sfociare in violenza. Non è solo un caso isolato: siamo cresciuti in un mondo che combatteva le idee altrui, giuste o sbagliate, con il dialogo e il confronto; ci ritroviamo in un mondo in cui la parola non è più solo veicolo di idee, ma anche terreno di scontro. Politico. Sociale. Fisico.
Il principio del free speech – così caro alla cultura anglosassone e, in questi ultimi anni, come detto alla retorica MAGA – non è mai stato sinonimo di impunità retorica. Ci sono limiti e leggi: l’incitamento alla violenza, la disinformazione deliberata, l’odio razziale. Ma il suo valore fondante resta. Deve restare: permettere l’esistenza del dissenso, della pluralità, della critica. Quando il dissenso viene messo a tacere, anche per motivi apparentemente giustificati, il rischio è che la soglia della tolleranza si abbassi per tutti.
Nell’America di oggi, beh, l’impressione è che siamo ben oltre la soglia del necessario. La cultura del take down, tornando a Kimmel e ad altri, della sospensione, della cancellazione, non aiuta a costruire spazi di convivenza: al contrario, li restringe. E se negli Stati Uniti l’informazione e l’opinione diventano campi minati, basti pensare alle pressioni sul Washington Post, non illudiamoci che l’Europa sia immune. La vera difesa della libertà di espressione non è la libertà di dire tutto, ma la capacità di reggere ciò che non condividiamo. In un senso come nell’altro. Se la parola diventa pericolosa, allora l’unica alternativa è il silenzio. Ma nessuna democrazia è mai nata – o sopravvissuta – nel silenzio.