Il commento

Cosa salvare di questo processo?

La giuria ha favorito la tesi di Johnny Depp, e come Amber Heard anche il movimento #MeToo ha incassato un duro colpo — Le conseguenze del verdetto sono molteplici e sfaccettate
Giacomo Butti
04.06.2022 17:15

Al tribunale della contea di Fairfax, Virginia, la giuria ha deciso. E lo ha fatto favorendo la tesi di Johnny Depp. L'ex moglie Amber Heard è stata riconosciuta colpevole di diffamazione e sarà costretta a pagare all'attore 10 milioni di dollari in danni "compensativi" e altri 5 in danni "punitivi". Poco importa che a lei vadano, invece, 2 milioni a causa di alcune esternazioni diffamatorie dell'ex avvocato del 58.enne. A vincere agli occhi del mondo, e non solo in termini di "cocuzze" ottenute, è stata la star dei Pirati dei Caraibi. Lungo tutto l'arco del processo il web intero si è schierato dalla parte di Depp, sposandone completamente la tesi di innocenza, e affogando la 36.enne in un mare di improperi, "meme" e minacce di morte. «Giustizia è fatta», scrive sul blog di turno l'utente medio di internet. Ma non sempre, vogliamo sottolineare, la verità processuale corrisponde senza sbavature a quella fattuale. E questo ha il potenziale per essere uno di quei casi. Se qualcosa s'è capito dei due attori nelle sei settimane di processo, è che la loro relazione era un "real mess" come direbbero oltreoceano. Un bel casino, per dirla più gergalmente. Un rapporto tossico costruito su atteggiamenti e stili di vita sregolati. Che la verità fattuale, dunque, stia da un solo lato, ci pare improbabile. Davvero Depp non ha mai alzato un dito sull'allora moglie? Davvero, per sfuggire alle ire di Heard, l'attore di Edward mani di forbice è sempre e solo corso a rinchiudersi in uno dei mille bagni della magione? Il dubbio rimane, soprattutto alla luce del fatto che la di lui definizione fatta dal tabloid The Sun («picchiatore di mogli») era stata riconosciuta da un tribunale britannico come «sostanzialmente vera». Eppure, al netto di queste considerazioni, è innegabile che mercoledì il movimento #MeToo abbia incassato un duro colpo. Colta più volte a mentire alla sbarra, Amber Heard nella sua dichiarazione post-processo ha messo i riflettori su un vero, grande, pericolo: «[Il verdetto] fa regredire l'idea che la violenza contro le donne debba essere presa sul serio». Già, perché la paura è che ora la texana, autodefinitasi «una figura pubblica rappresentante gli abusi domestici», trascini con sé, in un pozzo di dubbi, la testimonianza di ogni vittima di violenza. Che per le donne pronte a farsi avanti e a denunciare gli abusi subiti, l'essere ascoltate divenga ancora più dannatamente difficile.

Come uscirne? Innanzitutto sperando che la 36.enne sia svestita del ruolo di «rappresentante». Ben difficilmente, del resto, un simile caso può essere preso come la "norma". E non solo per il circo mediatico, gli improbabili testimoni o la natura "VIP" delle parti. Ma anche e soprattutto perché di abusi, afferma il materiale presentato in tribunale, Heard ne avrebbe pure perpetrati. Ci auguriamo insomma che questo processo, dove a ben vedere nessuno avrebbe dovuto vincere, venga preso per quello che è: una triste storia di abusi fra due individui altamente disfunzionali.

A questo punto, raccolti i cocci, non resta che fare una valutazione: cosa si può salvare?

Prima considerazione: il caso ha portato alla luce un argomento ancora poco discusso e che andrebbe approfondito. Si tratta della violenza di cui anche gli uomini possono essere vittime: non solo quella fisica, ma anche psicologica. Se della prima esistono una manciata di studi (alcuni dei quali azzardano la teoria di una "simmetria" statistica fra genere maschile e femminile nell'uso della violenza fisica, benché le conseguenze di quella maschile siano quasi sempre più gravi), per la seconda potremmo parlare di un campo ancora inesplorato. Eppure, ormai dappertutto su internet, sui social, su YouTube, si rincorrono le testimonianze maschili: «Sono un uomo, e anche io ho subito violenza».

Seconda considerazione: viviamo in un'epoca, come evidenziato da Depp nella dichiarazione post-verdetto, dove un'informazione fa «il giro del mondo due volte in un nanosecondo». In un contesto simile, la parola (è proprio il caso di dirlo) ferisce più della spada. Ed è in grado di distruggere carriere, famiglie, vite. Aprendo un discorso più generale e togliendo per un attimo da sotto la lente il caso in questione, scopriamo come oggigiorno troppo spesso un aspetto così importante del nostro diritto come la presunzione d'innocenza venga calpestato. Incalcolabili le volte in cui (anche grazie al tribunale del web) i diritti vengono rovesciati: «Colpevoli fino a prova contraria». Sì, la parola uccide. A promuovere questo gioco v'è stato, suo malgrado, pure uno slogan di #MeToo: «Believe Women» («Credete alle donne»). Già, perché nato come lo abbiamo presentato, questo motto ha subito una piccola ma profonda mutazione nel corso degli anni. Si è trasformato in «Believe All Women» («Credete a tutte le donne»). Chi sia stato ad aggiungere quella parolina non si sa. Alcuni dicono le più estremiste del movimento femminista. Altri affermano qualche sostenitore del patriarcato che voleva contaminare il pensiero originale aggiungendo qualcosa di "attaccabile". Sta di fatto che all'improvviso il nobile slogan ha assunto un carattere assoluto, che non lascia spazio a interpretazioni. E che, dicevamo, ha alimentato l'idea che a puntata d'indice corrisponda forzatamente una colpa. Non sempre è così. Chris Rock (sì, proprio il comico schiaffeggiato da Will Smith) l'aveva messa sul ridere: «Believe all women except Amber Heard» («Credete a tutte le donne esclusa Amber Heard»). Questo processo potrebbe aiutare a levare quel «tutte» che sa di caccia alle streghe. E contemporaneamente riportare il motto al suo significato originale. Uno che sottolineava l'importanza dell'ascolto e dell'apertura, valori che la comunità tutta deve avere nei confronti delle donne che affermano di avere subito violenze.