Diario d'autunno

Appunti da un diario d’autunno, due incontri. Mercoledì 29 ottobre, Zurigo. A un angolo di Bahnhofstrasse seguendo la scia di un profumo di caldarroste mi sono comperato un cartoccio di castagne. A servirmi è stato un giovane africano nerissimo con un sorriso bianchissimo. E ho pensato all’improvviso che quell’immigrato dal sud del mondo era a modo suo l’erede di quei nostri antenati (come alcuni del ramo di mia nonna materna, bleniese) che oltre un secolo fa negli inverni parigini vendevano caldarroste ai signori e alle dame eleganti che uscivano dall’Opéra o dai caffè sui boulevards: stessa necessità di campare, stessa nostalgia di una casa lontana. Sgranocchiando le mie caldarroste mentre aspettavo un tram (festa mobile di luci ai finestrini nel ronzio urbano della città autunnale) ho pensato anche che le castagne non soltanto furono per molti anni la materia prima del lavoro di tantissimi nostri emigranti poveri, ma addirittura, per secoli, almeno fino al termine dell’Ottocento, vero «pane di vita» nella nostra storia prealpina, nutrimento basico di gente povera. Al punto che un modo popolare di dire recita: «pan di legno e vin di nuvola», ovvero castagne dall’albero, acqua dalle nubi. In certe annate magrissime nei villaggi più poveri si tirava avanti per settimane con quella manna uscita dai ricci. Lo testimonia Stefano Franscini nella sua «Svizzera Italiana» del 1835: «Il castagno fornisce agli abitatori di molte nostre terre di che pascersi una e anche due volte il dì per più mesi di seguito». Per noi, cresciuti in altra epoca e con altro pane e companatico le castagne sono oggi un cartoccio fuggevole che scalda le mani o una compagnia festosa in castagnate allegre, come dice Francesco De Gregori: «Mangiamo pane e castagne in questo chiaro di luna…»
Altro incontro, sera del 31 ottobre. Cammino nelle quiete strade buie di Ravecchia in uscita con il cane che annusa tracce mentre io guardo le luci di finestre che contengono vita e storie all’ora di cena. L’alone di un lampione all’improvviso inquadra un manipolo di ragazzetti e ragazzette concitati, sono vestiti da zucche, streghette e scheletrini, vivono
l’avventura di Halloween, suoneranno campanelli di porte, raccoglieranno piccoli bottini. Sono allegramente eccitati, nell’ età breve in cui si è felici senza saperlo. E’ un buon incontro simpatico a dispetto di tutta la mia ormai stagionata diffidenza per questa ritualità importata dall’America e a sua volta generata (o degenerata) da remote memorie di riti celtici che esorcizzavano il mistero dei morti nella stagione del buio crescente (e su questa scia si innesta la ritualità cristiana dedicata ai defunti). Niente di nuovo dunque sotto la luna di ottobre-novembre, senza brontolare inutilmente sui ricambi di costumi e riti di una società umana globalizzata che sta camminando. Erano simpatici quei ragazzini che nella notte già fresca d’aria quasi nevosa gustavano il sapore della mascherata ma anche di una vaga traccia di mistero. Semmai, pensavo poi continuando il cammino con il mio cane e sempre costeggiando giardini bui e finestre accese su minestre e storie private, sarebbe importante da parte di genitori ed educatori di quei ragazzini far loro balenare anche il più profondo senso di quel buio crescente ritualmente riferito al mistero della morte. Potrebbero ricordare ai loro figli in questi giorni i morti di casa (nonni, bisnonni, parenti) e la tradizione della visita al cimitero dove il brusìo discreto dei vivi intenti a perlustrare i viali dei morti costituisce un momento di rispettoso e intenerito pensiero per coloro che ci furono cari e spesso essenziali e ora non ci sono più. Quei morti rivivono nella nostra volontà di tenerceli accanto nel ricordo e di stabilire con loro, per chi riesce, un salutare commercio di domanda e intercessione. Dentro la consapevolezza di un’appartenenza a una radice, a una comunità, i morti vivono con noi. Giorgio Orelli, nella bella poesia «Nel cerchio familiare» immagina i morti del suo villaggio montano (dove il locale principale delle vecchie case si chiama «stüa», stufa) mescolarsi discretamente alla nostra quotidianità : «Entro un silenzio così conosciuto/ i morti sono più vivi dei vivi:/ da linde camere odorose di canfora/ scendono per le botole in stufe/ rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,/ ritornano nella stalla a rivedere i capi/ di pura razza bruna». Davvero un sospeso silenzio d’ascolto è il dono più bello che possiamo fare ai nostri morti. Ed essi ci ricambieranno, quieti e fedeli, a modo loro.

