Fogli al vento

Diario di città

Appunti sparsi annotati a Basilea pochi giorni or sono, fra una attesa di tram e due passi verso la stazione
Michele Fazioli
Michele Fazioli
05.02.2024 06:00

Appunti sparsi annotati a Basilea pochi giorni or sono, fra una attesa di tram e due passi verso la stazione. Non c’è nulla del gelo bianco di brine e nebbie e nevi di anni fa all’alba di febbraio. Adesso si infiltra anzi tra le strade un sospetto fresco di aria quasi primaverile, un misto strano fra una «bise» mite e un favonio sedato. Eppure oltre quel marciapiedi i rami dei platani sono ancora segni grafici neri contro il cielo slavato e chiaro. Non ci sono più le stagioni di una volta: anche se questo ritornello lo sento dire da decenni, adesso sembra proprio vero. Su questa banchina doppia si snodano e incrociano lunghi tram verdi, c’è brusìo di gente che passa e di gente che attende, che sale e che scende. Mi si fermano accanto due donne giovani, una donna anziana e una bimba, parlottano tra loro in una musicalità slava. Saranno forse profughe ucraine, mi dico con un riflesso condizionato di pensiero. Dai vestiti non si capisce, forse solo un giacchettone di lana della anziana parrebbe roba da mercato dell’est. Rifletto sul fatto che la concitazione commossa di due anni fa attorno a questi fuggiaschi di guerra è svaporata, purtroppo ci si abitua a tutto, quella resta una guerra atroce ma qui ormai è stata un po’ digerita nella pancia emotiva di noi occidentali sazi e tranquilli (finché dura, ammonisce il folletto pessimista che abita dentro ogni cuore cauto). Altre guerre bussano, straziano e talvolta assuefanno la nostra attenzione tentata dalla distrazione (che poi si chiamerà indifferenza).

Nella colonna sonora sincopata di un sassofonista ambulante i passi della gente sembrano persino accordarsi per qualche attimo al ritmo musicale. Incrocio la camminata impassibile di un signore alto in soprabito nero e cartella nera: un manager bancario che va verso la partita di jass, un pastore protestante, un professore? Un uomo con giacca a vento e zainetto si ferma invece un attimo a cogliere una coda di musica, forse prima di rientrare in una casetta a schiera dal prato ben tosato. A un’altra fermata di tram due africani e una donna in tunica gialla parlano una lingua di sole e deserto. Accanto a loro sostano cinque giovani soldati nostri in divisa a macchie mimetiche color autunno: biondi, taglio corto di capelli, un’aria ancora adolescente, sembrano timidi, soldati per gioco. Una ragazzina mulatta, ben fasciata di jeans di marca, scarpette Adidas bianchissime (figlia adottata di svizzeri bene, oppure seconda generazione assestata di immigrazione?) sorride a quel che le cantano gli auricolari. Arriva una ragazza occhialuta, abbracciata a un astuccio di violoncello: sembra soddisfatta, va verso la sua musica e il suo futuro (sarà concertista oppure sposerà un chimico farmaceutico, farà la mamma e suonerà canti natalizi la sera della vigilia con il violoncello dei suoi sogni perduti?). Una signora decisamente aristocratico-locale si estrania nell’attesa distratta del tram, porta al collo la bandiera della sua classe, il foulardino Burberrys beige e quadrettato, ha colpi di sole nei capelli, la immagino nella sua casa con veranda in collina, cane Golden Retriever, un paio di figli e marito con SUV. Un ragazzo parla e parla al telefonino a voce alta e poco gli importa che tutti sentano, due ragazze invece sfiorano tasti con dita velocissime sul cellulare oppure semplicemente lo tengono in mano, protesi rassicurante. Una vecchia signora dai capelli violetti cammina a passettini d’uccello aggrappata al braccio di una badante sudamericana che guarda paziente in avanti (noi ormai importiamo la manodopera che curerà i nostri scricchiolii estremi di corpo e di mente). Adocchio anche un frate indiano: dopo aver mandato missionari nel mondo intero la Chiesa importa preti esotici per rievangelizzare, se gli riesce, questo popolo di benestanti sazi e stanchi e tuttavia aggrappati alle maniglie dei tram e a una ostinata speranza di felicità: il prodotto interno lordo è buono ma l’inquietudine è abbastanza alta. Poco più in là un drappello di arabi custodisce chiacchiere fitte e gutturali, passano due africane con sederi voluminosi, alcune ragazzine indigene fumano a colpi nervosi, armeggiano anche loro sui telefonini, assorte o corrucciate, assenti. Nell’aria ci sono zaffate di bratwurst, passano ragazzi con cellulari e birre, sembrano svogliati come per mancanza di passioni. Intanto il cielo ha ormai già strisce rosate che si riflettono sui vetri delle alte case severe, i tram affollati e dai finestrini già illuminati portano il loro pieno di umanità verso le cene e i telegiornali della sera, domattina presto risuoneranno le sveglie.