Donald Trump e la libertà di parola 2.0

Il Primo Emendamento «impedisce al governo di punire il discorso e la condotta espressiva perché non approva le idee [con essi] espresse». L’opinione di maggioranza pubblicata nel 1992 dalla Corte Suprema statunitense sul caso R.A.V v. City of St. Paul riassume bene il concetto di «libertà di parola». Allora, con questa frase, la più alta corte della magistratura federale aveva rovesciato - all’unanimità - la condanna di un adolescente che aveva dato fuoco a una croce sul prato di una famiglia afroamericana. L’incriminazione del giovane, basata su un’ordinanza penale locale che vietava l’esposizione di un simbolo che «suscita rabbia, allarme o risentimento in altri sulla base di razza, colore, credo, religione o sesso», era stata giudicata lesiva del free speech dell’imputato.
È un caso estremo. Ma spiega come mai, benché il Primo Emendamento sia stato promulgato il 15 dicembre 1791, le discussioni su una sua corretta applicazione siano ancora molto vivaci negli Stati Uniti. E, soprattutto, spiega perché su questo tema Donald Trump abbia fatto campagna elettorale nel 2024, strizzando l’occhio a quella frangia della destra americana che, in lotta aperta con il politically correct, da tempo accusa il fronte opposto di aver limitato - specialmente con la moderazione sui social - la libertà d’espressione.
L’Executive Order 14149, il provvedimento per il «Ripristino della libertà di parola e fine della censura federale», è un punto cardine del programma politico della nuova amministrazione Trump. Prova il fatto che sia stato il terzo sul quale l’allora neoinsediato ha messo la firma, nel giorno del suo ritorno nello Studio Ovale.
Certo, rimettere al centro del villaggio un diritto così importante è un proposito, sulla carta, nobile. Ma che, senza guardrail, ha non solo portato a una recrudescenza, online, di espressioni di odio e al dilagare di fake news: l’applicazione partigiana della «libertà di parola 2.0» ha finito per creare una versione «destrorsa» del fenomeno che voleva combattere. Una «destra woke», come l’hanno definita alcuni osservatori statunitensi, che ha un’idea ben precisa su che cosa si possa e non possa dire negli Stati Uniti di Trump. Prima, sotto la lente, c’erano i temi sociali. Ora, a essere monitorato - ed eventualmente debellato - è tutto ciò che possa indispettire il leader di Washington. Sostenuto da una amministrazione che non solo a parole - quelle pronunciate anni fa da JD Vance - ma anche nei fatti (chiedere a Columbia e Harvard) considera i professori «un nemico», l’anti-intellettualismo da sempre pilastro della retorica trumpiana è cresciuto in un «Maoismo MAGA» - come già lo chiamano non pochi analisti - deciso a smorzare sul nascere ogni forma di dissenso, sia esso culturale o politico.
Una rivoluzione che si manifesta non solo nella decisione di dare nomi più «anglosassoni» a montagne nativo-americane, nell’esclusione di individui transgender dall’esercito o nella fine del programma Diversity, equity, and inclusion (DEI) nel governo federale. Ma anche nel tentativo, tutt’altro che dissimulato, di impedire l’organizzazione politica dell’opposizione.
Il fatto che, negli scorsi giorni, l’amministrazione Trump non abbia escluso la possibilità di togliere la cittadinanza al candidato progressista per il posto di sindaco a New York, Zohran Mamdani, e di arrestarlo per le sue idee politiche, dovrebbe far riflettere chi - a torto o a ragione - negli ultimi anni si è indignato per il trionfo del politically correct. È questa la libertà di parola tanto agognata?