E se tornassimo al protezionismo?

Alfonso Tuor
20.05.2016 06:00

di ALFONSO TUOR - La globalizzazione non è un processo ineluttabile, ma il frutto di una scelta politica. È quanto ci stanno ricordando le primarie statunitensi e le reazioni di rigetto contro il Trattato di libero scambio fra Stati Uniti ed Unione europea (TTIP), i cui contenuti si sono cominciati a conoscere solo recentemente dopo tre anni di trattative segrete grazie ai documenti fatti trapelare da Greenpeace. Infatti sono ormai sotto gli occhi di tutti le conseguenze negative della scelta di puntare su una sempre maggiore apertura dei mercati internazionali. La vittima principale è stato il mondo del lavoro dei Paesi occidentali. La delocalizzazione delle produzioni nei Paesi a bassi salari ha provocato una notevole perdita di potere contrattuale dei lavoratori, che si è tradotta nella stagnazione (e spesso nella diminuzione) dei salari e nella diffusione del lavoro precario. Questo processo ha favorito pochi, mentre ha colpito pesantemente i redditi del ceto medio e basso con l'inevitabile conseguenza di fare esplodere le diseguaglianze sociali. I dati statistici statunitensi confermano queste tendenze, che non sono diverse in Europa. Insomma, le magnifiche sorti della globalizzazione con i suoi complementi fatti di deregolamentazioni e di riduzione della pressione fiscale per i più favoriti, decantate da politici ed economisti, si sono sciolte come neve al sole di fronte alle loro ripercussioni sulla vita di milioni e milioni di persone. Ma c'è di più. Il profondo cambiamento della dinamica dei redditi è la causa prima della crisi economica dalla quale l'Occidente, da ben otto anni, non riesce realmente ad uscire nonostante l'adozione di misure eccezionali come la continua stampa di moneta e tassi di interesse spinti in alcuni Paesi addirittura in territorio negativo. Infatti il problema centrale delle nostre economie è una cronica carenza di domanda finale, che si può leggere anche al contrario come un eccesso di capacità produttive. La destabilizzazione dei mercati del lavoro occidentali non è stata compensata da un sufficiente aumento della domanda dei Paesi emergenti. Il risultato è che praticamente in ogni settore l'offerta di beni e servizi è superiore alla domanda con una conseguente pressione al ribasso su prezzi e salari. Si è quindi cercato di ovviare a questa cronica carenza di domanda finale facendo lievitare l'indebitamento di famiglie, imprese ed enti pubblici, creando bolle speculative (come quella sul mercato immobiliare americano che ha determinato la crisi finanziaria del 2008) e ora attraverso l'uso spregiudicato delle politiche monetarie. Ma le armi delle banche centrali sono totalmente inappropriate per combattere il contesto deflazionistico creato dalla globalizzazione.

Queste sono le conseguenze più evidenti di questo processo che ha portato persino uno dei principali cantori della globalizzazione, il premio Nobel Paul Krugman, a scrive sul «New York Times» che nell'attuale contesto economico «il protezionismo qualche ragione ce l'ha». E protezionismo non vuol dire autarchia, ma un commercio internazionale basato su regole (e quindi possibilmente equo) e non sull'attuale legge della giungla. Non sorprendono quindi le reazioni di rigetto nei confronti del Trattato di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione europea, come non sorprende la vera e propria rivolta contro l'establishment che si manifesta sia in campo repubblicano con il successo di Donald Trump sia in campo democratico con i consensi che continua ad ottenere Bernie Sanders. Si tratta della manifestazione di un profondo rancore nei confronti di élite che hanno imposto politiche che hanno impoverito milioni e milioni di persone a favore di esigui gruppi di interesse che hanno scippato le sovranità nazionali invocando presunte superiori leggi di mercato.

Inaspettatamente nelle prossime elezioni statunitensi vi è la possibilità che il rancore accumulato da milioni di americani nei confronti dell'establishment politico ed economico produca un risultato che ponga fine (o corregga) questa globalizzazione. Quindi, negli Stati Uniti si gioca una partita della massima rilevanza per il mondo intero.