Il commento

Effetti di guerra

Ad eccezione del prezzo dell’oro che continua a salire le reazioni iniziali dei mercati finanziari alla guerra tra Israele ed Iran sono state relativamente contenute e sono rientrate nella norma all’inizio di questa settimana
Alfonso Tuor
18.06.2025 06:00

Ad eccezione del prezzo dell’oro che continua a salire le reazioni iniziali dei mercati finanziari alla guerra tra Israele ed Iran sono state relativamente contenute e sono rientrate nella norma all’inizio di questa settimana. Sembra infatti che nessuno sia preoccupato delle conseguenze di questo nuovo conflitto e che dia per scontato che si concluderà presto con una mediazione che porterà Teheran ad accettare una soluzione al problema dell’arricchimento dell’uranio che soddisfi Washington e Gerusalemme. Questa conclusione è rafforzata da alcuni movimenti dei mercati. Il petrolio, la materia prima più minacciata da un’estensione del conflitto che avrebbe potuto portare alla chiusura dello stretto di Hormuz attraverso cui transita più del 20% del greggio mondiale, dopo uno scatto al rialzo ha cominciato a declinare per avvicinarsi ai prezzi precedenti. Lo stesso è accaduto per il tasso di cambio del dollaro: dopo una fiammata iniziale già venerdì scorso il biglietto verde ha ripreso a scendere. Altrettanto è successo alle obbligazioni statali statunitensi appesantite dalle crescenti difficoltà di Donald Trump di trovare una maggioranza anche al Senato per far approvare la sua legge di bilancio. Anche le altre monete a partire dall’euro si sono subito afflosciate. Il franco svizzero, molto probabilmente frenato dagli interventi della Banca Nazionale, si è mantenuto ai suoi livelli.

Invece è l’oro a brillare in questa era di instabilità a dimostrazione della crescente sfiducia nei confronti delle valute dei diversi Stati e dell’euro oberate da crescenti debiti e da prospettive politiche ed economiche incerte. Infatti quella che John Maynard Keynes chiamava una «reliquia barbarica» ha guadagnato il 30% dall’inizio dell’anno. Secondo alcuni la marcia al rialzo del metallo giallo è dovuta a Donald Trump e alle crescenti incertezze politiche della sua amministrazione. La corsa dell’oro non è un fatto nuovo: dopo la decisione del 15 agosto 1971 di Nixon di sganciare il dollaro dall’oro, il suo prezzo ha superato i 1.000 dollari dopo la crisi finanziaria del 2008, i 2.000 dollari dopo la pandemia da Covid ed ora è valutato a più di 3.000 dollari l’oncia. Il ritmo dell’ascesa è sempre più rapido e dipende dal fatto che l’indebitamento globale continua a crescere e soprattutto che i Paesi occidentali ricorrano sempre più ai disavanzi pubblici per rilanciare le loro economie in difficoltà. È il caso degli Stati Uniti, ma ora anche dell’Europa. In questo contesto diventa sempre meno credibile che le loro valute possano mantenere il loro valore. Il momento della verità si sta avvicinando sempre più per gli Stati Uniti, ma vale anche per l’Europa. Non è casuale che i maggiori acquirenti della «reliquia barbarica» siano le banche centrali dei Paesi emergenti (con in testa India e Cina), che negli ultimi tre anni hanno acquistato ogni anno 1.000 tonnellate di oro per accrescere le loro riserve. In conclusione, l’attuale sistema monetario internazionale, incentrato sul dollaro, è in crisi, ma non vi è ancora alcun segnale che si possa intravvedere una discussione per giungere ad una riforma concordata tra i Grandi del mondo. Purtroppo occorrerà una nuova grave crisi finanziaria per raggiungere questo obiettivo.