Eurovision 2024, non sono solo canzonette

Aveva torto Edoardo Bennato a cantare on un suo celebre disco Sono solo canzonette. Non lo sono infatti mai state. Le canzoni e la musica in generale al di là della loro apparente facilità e semplicità sono da sempre portatrici di messaggi profondi e importanti. Da Beethoven che nella Terza Sinfonia inneggiò a Napoleone (salvo poi ravvedersi) a Giuseppe Verdi la cui musica divenne un simbolo irredentista e il cui cognome divenne addirittura un acronimo rivoluzionario; dal jazz, importante veicolo per l’emancipazione degli afroamericani a Bob Dylan che scosse le coscienze giovanili degli anni Sessanta; dalla rabbia del rapper dei ghetti americani alla dolcezza o all’ironia di certi interpreti, le canzoni hanno sempre avuto un significato più importante di quello a loro assegnato.
Sono state, molto spesso un’occasione per mettere a fuoco problematiche difficili, per aprire il dibattito su problemi e tematiche o scottanti o difficili da affrontare, anche in contesti apparentemente strani. Come quello colorato, leggero e gaio dell’Eurovision Song Contest di Malmoe, che è stato uno dei più politici della sua storia nonostante l’intento degli organizzatori di lasciare fuori dalla bolla da loro costruita problemi, difficoltà e contraddizioni e lasciare spazio unicamente alla festa e ad innocue melodie. Che tanto innocue, alla fine, non si sono rivelate, né direttamente né in modo indiretto. Indirettamente attraverso i fischi che hanno accompagnato dal primo all’ultimo istante la presenza in Scandinavia della rappresentante israeliana e della sua canzone che inneggiava al superamento delle difficoltà (ma dal retrogusto chiaramente politico) ma anche grazie alla «controprotesta» silenziosa ma efficace del televoto che ha inteso premiarla, invece, alla stregua di un altro brano – quello ucraino – decisamente modesto ma «politicamente» importante. Direttamente grazie alla presenza, all’interno della competizione, di canzoni che, pur tra sberleffi, clownerie e esibizioni talora anche di cattivo gusto, hanno offerto non pochi riferimenti a tematiche di attualità. L’esempio più significativo è stato proprio quella della canzone svizzera, The Code di Nemo, artista che si definisce «non binario» e che ha affrontato il problema dell’identità di genere – un tema scottante e molto divisivo – in maniera netta, chiara, senza fronzoli attraverso un’esemplificazione semplice e di facile comprensione a tutti. Ovvero cercando di far capire che pur in una società come la nostra, digitale e dunque schematica – in quanto costruita su quel sistema numerico binario fatto di una serie di 1 e di 0 alla base di ogni sistema informatico – c’è anche dell’altro.
Tra uno «zero» e un «uno» c’è un intero universo che non è possibile ignorare e neppure affrontare con astio, rancore o provocazione ma semplicemente accettandolo con serenità e magari con un sorriso. In modo semplice di vedere e di spiegare le cose che, a giudicare dall’esito della competizione, è andato a segno, molto più di reboanti rivendicazioni e di provocazioni spesso fuori logo. Potere della musica e di quelle che non sono solo delle canzonette.