Fed, scontro sull'indipendenza

La Banca centrale americana ha tagliato i tassi di interesse di un quarto di punto, ma non si è piegata alle pressioni di Donald Trump che accusa la Federal Reserve (Fed) di essere in grave ritardo nel ridurre il costo del denaro di fronte ad un’economia che dà chiari segnali di rallentamento. Questo intervento dovrebbe dare un po’ di fiato alle persone e alle società indebitate, ma non basterà a risollevare un mercato del lavoro, che in agosto ha aggiunto solo 22mila impieghi. Comunque questo primo passo, che ha abbassato la fascia di oscillazione voluta dalla Fed al 4/4,25%, sarà molto probabilmente seguito entro la fine dell’anno da altri due interventi della stessa portata. Questi interventi non basteranno nemmeno a risollevare un settore industriale che avrebbe dovuto il primo beneficiario dei dazi e quindi di una diminuita concorrenza straniera, ma che quest’anno ha già perso 78mila posti di lavoro.
È dunque prevedibile che proseguirà lo scontro tra Casa Bianca e i vertici della Banca centrale americana, anche perché la battaglia non riguarda solo il livello dei tassi di interesse.
In gioco è l’indipendenza della Fed e soprattutto il finanziamento del debito pubblico americano. Su questi punti come su quasi tutte le scelte di Donald Trump non vi è chiarezza sulle politiche che si vogliono perseguire. L’introduzione dei dazi è stata voluta non solo per rimpatriare i posti di lavoro, ma soprattutto per fare cassa destinata a ridurre l’esplosione del debito pubblico. Il risultato finora si aggira sui 150 miliardi di dollari, che limano di poco un deficit annuo che si avvia verso il 7% e un debito pubblico vicino al 120% del PIL, cui si deve aggiungere il debito privato di famiglie e società.
A coprire questi enormi «buchi» hanno finora contribuito gli stranieri dal Giappone alla Cina fino alle petromonarchie ed anche gli europei che investono ogni anno circa 300 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Ma l’imprevedibilità della politica di Trump e il forte calo del dollaro sceso del 13% nei confronti del franco svizzero rischiano di frenare l’afflusso di nuovi capitali. Quindi gli americani si preparano ad affrontare una nuova crisi, simile a quella dello scorso 9 aprile, che consisterebbe in una fuga dai titoli del debito pubblico americano e in una contemporanea caduta del dollaro.
Ora per affrontare una crisi del genere occorre che la Fed si rimetta ad acquistare le obbligazioni del Tesoro, come ha già fatto in modo colossale negli ultimi venti anni a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Ma a questo punto per complicare il tutto interviene il ministro del Tesoro, Scott Bessent, il quale giustamente sottolinea che questa politica non fa che far salire il valoro delle attività finanziarie e fa quindi esplodere le diseguaglianze sociali. Sta di fatto che l’unico piano esistente (e anche credibile) è quello di Stephen Miran, appena nominato nel board della Fed, il quale prevede un forte intervento della banca centrale, un crollo del dollaro e quindi l’emissione di obbligazioni perpetue del Tesoro che dovrebbero acquistate dai Paesi «amici» degli Stati Uniti. Insomma ancora una volta i Paesi europei verrebbero chiamati alla cassa. In conclusione, la battaglia tra Casa Bianca e Fed non è solo una battaglia tecnica sui tassi di interesse, ma è uno scontro sull’indipendenza della Banca centrale, che sarebbe decisiva in un’eventuale crisi del debito americano.