Situazioni, momenti, figure

Giornalismo e affarismo

Sento spesso commenti e frasi ingenerose sulla categoria dei giornalisti, alla quale vengono attribuite le confusioni divulgative di quanto succede nel mondo
Salvatore Maria Fares
Salvatore Maria Fares
17.10.2025 06:00

Sento spesso commenti e frasi ingenerose sulla categoria dei giornalisti, alla quale vengono attribuite le confusioni divulgative di quanto succede nel mondo. È accaduto anche nei giorni scorsi, con dei professionisti diversi, alcuni dei quali se non criticavano la categoria ne sorridevano però compiaciuti. Anni or sono ho vissuto la stessa situazione e ho replicato a tono ricordando Ennio Flaiano, maestro della cronaca, il quale diceva che preferiva perdere un amico ma non una battuta. L’insolenza verso i giornalisti è ricorrente e occorre una volta dire che anche loro hanno studiato, lavorato e svolgono con passione e scrupolo il loro lavoro. Come in tutti i mestieri qualcuno è bravissimo, qualcuno normale, qualcuno mediocre; c’è posto per tutti, come in tutte le categorie professionali. Conosco colleghi onesti e corretti, nella vita e alla scrivania. Si può non condividerne il pensiero ma fra il chiamarli fuchi o altro ce ne corre. È vero che ci tiriamo addosso qualche leggenda, ma non più dei medici o degli architetti, degli economisti o dei commessi viaggiatori. Luigi Barzini, una firma storica del giornalismo italiano scrisse che: «Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare». Alludeva al lavoro duro delle braccia. Una giornalista e scrittrice quasi centenaria, Natalia Aspesi, rincarò la dose: «Ignoranti i giornalisti? Se eravamo gente di cultura mica facevamo questo mestiere!». Sono battute dure che anche se dette per ironia e per gioco nuocciono. Leo Longanesi, altra firma dimenticata, poi editore, ambiguo antifascista in ritardo, era un maestro di battute pungenti. Quando lo volevano crivellare di colpi sotto un muro dietro il quale si era nascosto passando dai fascisti agli americani, su quel muretto c’era scritto a calce uno slogan: Mussolini ha sempre ragione. Quasi paradossalmente quel detto lo aveva inventato lui. A volte si rischia di morire sotto le proprie battute. Quel giornalismo epico, perché svolto sui fatti visti e vissuti di persona, che poteva permettersi autolesionistiche battute feroci che facevano epoca, non c’è più. Ci sono però ancora i giornalisti onesti, bravi, corretti, puntuali, precisi, quelli che vanno a cercare le notizie, come facevano Montanelli e Egisto Corradi, che vanno sui fronti di guerra senza il foulard firmato per apparire in televisione sulla terrazza del grande albergo a cento chilometri dai mortai. Era il giornalismo fatto anche da scrittori, da saggisti, dai polemisti, dai poligrafi, di quelli che in un articolo o in un aforisma riassumevano un trattato di sociologia e di politica. Era un giornalismo aristocratico per modi di essere, popolare per modo di comunicare. Ciò non significa che oggi non ci siano uomini come quelli di ieri. Forse questo mestiere considerato di privilegio induce qualche protagonista dello schermo “a tirarsela” ma non possiamo fare di ogni erba un fascio, però neanche uno sfascio. Fernanda Pivano, traduttrice che ci ha fatto conoscere bene Hemingway, disse che Truman Capote era bello come Kerouac ma quello che scrivevano era ancora più bello, sebbene a suo avviso la grande narrativa con radici nel giornalismo l’aveva iniziata Norman Mailer. In effetti Mailer sul fronte di guerra, nel ’43, aveva tratto esperienze che lucidamente trasfuse nel suo «Il nudo e il morto», che ebbe più echi di Hemingway e lo rese ricchissimo. Mailer aveva la stoffa del narratore «giornalista» e aprì una strada, a dispetto dei suoi comportamenti e delle sue «follie». Come loro l’Europa ebbe Curzio Malaparte, l’antagonista del grande Montanelli che però, a differenza dell’autore di «Kaputt» e di «La pelle», entrambi successi mondiali, non fu narratore ma fu un grande giornalista che a sua volta andava dove fischiavano le pallottole e i cingolati raschiavano i selciati. Mentre a Budapest fiammeggiava l’insurrezione del 1956 venne colto da un fotografo sullo scalino di un palazzo chinato sulla sua macchina per scrivere. Nel tempestoso momento che stiamo attraversando, i teleschermi hanno sullo sfondo scenari non diversi. Quando sento azzardati giudizi su chi scrive o filma dove l’orizzonte è di fuoco non è gradevole sentire i commenti sulle paghe e le indennità di quei testimoni che ci informano. Una ragazza a un tavolo di un bar all’aperto ha come scialle il vessillo/bandiera di un paese oggi in conflitto e balla gioiosa. Il sole sorge ancora.