Gli USA tra oro e dollaro

Si moltiplicano i segnali di allarme attorno al dollaro e si delineano le risposte dell’amministrazione americana. Il prezzo dell’oro è già salito quest’anno del 50% e ha superato i 3.800 dollari l’oncia stabilendo un nuovo primato storico, mentre il valore del dollaro ha continuato a diminuire dopo il 2 aprile scorso, ossia dopo l’annuncio della guerra commerciale di Donald Trump. Gli indici azionari di Wall Street hanno continuato a salire, ma l’80% dei guadagni dipende da titoli attivi e/o collegati con l’intelligenza artificiale (AI). Ciò spinge molti ad avvertire che questo comportamento della borsa americana è simile alla bolla delle dot.com che esplose nel 2000 e portò al fallimento di molte società che avevano investito nelle reti di fibra ottica che avrebbero dovuto collegare rapidamente il mondo ad Internet. Se si escludono le attività legate all’AI, le borse europee si sono comportate meglio di quelle americane. Segnali preoccupanti cominciano a manifestarsi anche nel settore del credito dove è sempre più attivo il settore bancario ombra statunitense, formato da fondi di Private Equity, assicurazioni ecc. Il sistema funziona come quello dei subprime, che nel 2008 portò alla più grave crisi finanziaria di questo dopoguerra, ossia si impacchettano i crediti in veicoli finanziari che emettono obbligazioni che si vendono sui mercati. A creare allarme è stato l’improvviso fallimento di First Brands, un gruppo che vende parti di auto, che lascia un buco di 10 miliardi di dollari. Senza il contributo degli enormi investimenti nell’AI la crescita americana sarebbe molto debole e renderebbe difficoltoso l’afflusso di capitali stranieri indispensabili per finanziare il debito commerciale e il debito pubblico.
L’amministrazione Trump è sempre stata consapevole di questa debolezza che già si esprime anche nel calo del tasso di cambio del dollaro e ha reagito con l’introduzione dei dazi che dovrebbero portare annualmente ad entrate stimate attorno ai 1.000 miliardi di dollari, alla definizione del quadro normativo delle stablecoins (criptomonete legate al dollaro) e a misure di emergenza di cui abbiamo già scritto, come l’emissione da parte del Tesoro di obbligazioni perpetue che dovranno essere acquistate dai Paesi amici degli Stati Uniti. Donald Trump jr., ossia il figlio del presidente americano, ha infatti recentemente dichiarato che «le stablecoins stanno diventando lo strumento che preserverà l’egemonia del dollaro nel mondo». Nel luglio scorso con l’approvazione del Genius Act da parte del Congresso queste criptovalute (che sono completamente diverse dai Bitcoin e dalle migliaia di token in circolazione) devono avere attività liquide, come i titoli a breve termine del debito americano, in modo da garantire che possa essere onorata un’eventuale corsa alla riconversione di queste stablecoins in dollari. La «garanzia» dello Stato federale americano ha fatto sì che in pochi mesi hanno raccolto 300 miliardi di dollari, ma la garanzia è tutta da provare quando una delle società che emette stablecoins fallirà. Vi sono inoltre altri problemi, dal ruolo delle banche nelle attività di credito all’esplosione del numero di stablecoins, che è già in corso, che renderà impossibile il lavoro di sorveglianza dei controllori. È chiaro comunque che questa innovazione cambierà la faccia del settore finanziario, mentre non è certo che riuscirà a preservare l’egemonia del dollaro, che per il momento non è ancora attaccata da nessuno se non dalle politiche di Washington.

