I dazi e la scossa d'avvertimento per i conti statunitensi

La guerra dei dazi non sembra aver scosso le borse. I principali indici americani sono prossimi ai massimi storici; quelli europei stanno salendo e non hanno risentito l’accordo di tasse del 15% sulle esportazioni negli Stati Uniti; pure la borsa svizzera appare in ottima salute, anche perché beneficia dell’esclusione dalle tasse americane dell’export di oro e attende impavida le decisioni di Donald Trump sul trattamento dei prodotti farmaceutici (insomma finora le forche caudine dei dazi al 39% devono essere affrontate solo dal 7% dell’export elvetico). Tutto ciò non indica che l’economia mondiale non conosce grandi difficoltà. Il protezionismo di Trump sta, da un canto, esasperando lo scontro politico tra Nord e Sud (significativo il vertice previsto tra Cina ed India – colpita da dazi del 50% - che rafforza i BRICS) e, dall’altro, non sta affatto risolvendo il problema del debito americano e quindi dell’instabilità del sistema monetario internazionale. L’obiettivo di Donald Trump, come tutti sanno, è ridurre il disavanzo commerciale americano e rimpatriare molte attività produttive fuggite all’estero. Però nell’immediato i dazi stanno intaccando la fiducia dei consumatori americani e stanno cominciando a far lievitare i prezzi. In parole povere, stanno mettendo in pericolo la forte ed eccezionale crescita dell’economia a stelle strisce. Il presidente americano ha già trovato il colpevole ossia il capo della Federal Reserve, Jay Powell, e un costo del denaro troppo alto che non vuole abbassare. Quindi non si esclude addirittura di chiederne la rimozione.
Nel frattempo a far parte dell’esecutivo della banca centrale americana sono stati candidati personalità di provata fede trumpiana. Tra questi Stephen Miran, che ha già presentato un piano per affiancare ai dazi un forte ribasso del dollaro, già in corso, e l’emissione di obbligazioni perpetue (tipiche dei periodi di guerra) da parte dello Stato americano che dovrebbero essere sottoscritte dai Paesi alleati (Europa, Giappone e Paesi anglofoni). In questo modo Donald Trump (nella veste di fra Cercott) spera di ridurre un debito estero di 36mila miliardi di dollari e un debito pubblico che supera il 120% del PIL. Ciò spiega pure le richieste di aumento delle spese europee per la NATO e i 100 miliardi chiesti all’Unione per l’acquisto delle armi americane da inviare in Ucraina. Nella medesima ottica ha ulteriormente liberalizzato un mercato finanziario estremamente fragile, come ha dimostrato negli scorsi giorni l’intervento miliardario di un sindacato di banche volto a frenare il crollo dei titoli azionari di CoreWeave, attiva nel campo dell’intelligenza artificiale. Insomma l’Europa (già con un’economia in stagnazione da cui spera di uscire attraverso le spese militari) e gli altri Paesi dell’Occidente «ristretto» (del quale fa parte anche la Svizzera) dovranno decidere quanto vorranno donare allo zio Sam per evitare una crisi finanziaria e quindi un significativo ridimensionamento della superpotenza americana. Insomma, l’attuale protezionismo americano con i suoi dazi è solo un avvertimento delle scosse che subiremo nei prossimi tempi per rimettere in sesto i conti statunitensi.