I monopoli delle BigTech

Panta rei, tutto scorre - tutte le cose si muovono, nulla permane. Eraclito lo ha detto 25 secoli fa. Va bene anche per le piattaforme digitali, anche se la storia di Google, Amazon, Netflix, Meta e TikTok è ben più recente, solo un paio di decenni, ma già è cambiato tanto.
Panta rei, forse lo pensano anche i dirigenti miliardari e i venture capitalists dalla Silicon Valley. All’inizio dell’era digitale sono stati venerati come moderni profeti perché parlavano del futuro nel nome e per conto dell’umanità intera. Il loro scopo - almeno quello dichiarato pubblicamente - era migliorare il mondo, promettevano un avvenire privo di angustie e miserie. Ogni azienda mandava in giro i suoi «evangelisti» - sì, li chiamano proprio così, bisogna pur dire, senza nessun senso dell’ironia. Ci sono sempre stati, ma quando ancora non avevano il fervore dei neoconvertiti si chiamavano semplicemente rappresentanti di commercio. Poi le cose sono cambiate. In peggio. La venerazione per i vari Bezos, Zuckerberg, Musk e altri ha lasciato il posto al disincanto, alla sfiducia. Stando ai sondaggi Gallup, se nel 2015 solo il 15% aveva una opinione negativa delle BigTech mentre il 60% ne aveva grande stima, oggi le proporzioni si sono praticamente rovesciate. Sono molti di più i cittadini diffidenti o critici. Senza scomodare i sondaggi, lo si vede bene dalle reazioni alle recenti nozze veneziane di uno degli uomini più ricchi al mondo. Certo non era contornato da folle adoranti come, per esempio, al matrimonio di Kate e William. Per non menzionare poi l’effetto di Elon Musk sui cittadini americani. Talmente detestato da provocare sistematicamente la sconfitta elettorale del candidato supportato da lui, persino in piccole elezioni locali.
Ci sono tanti motivi che hanno provocato questo ribaltamento. Ma chi è oggi ostile alle piattaforme non lo è perché in generale vede male la digitalizzazione, anzi. Il fatto è che le piattaforme sono diventate luoghi inospitali e ostili verso i loro utenti. Ecco cosa è capitato. Una BigTech dietro l’altra, da Amazon a Facebook a Youtube o TikTok ha esordito esaltando come scopo aziendale il bene dell’umanità e proponendo servizi che, secondo loro, avrebbero migliorato la vita di tutti. Per esempio, libri accessibili a tutti, non solo a buon mercato ma proprio sottocosto e consegnati gratuitamente a casa. Oppure contenuti sociali e contatti offerti gratuitamente ad ogni persona in ogni angolo del mondo. Poi, quando gli utenti non potevano più farne a meno anche perché i concorrenti, per esempio le librerie erano state costrette a chiudere, hanno cominciato a trascurare gli utenti e favorire i clienti aziendali, i venditori o gli inserzionisti.
E in seguito, e qui ci troviamo oggi, approfittano della loro posizione monopolistica per bistrattare e spremere utenti e anche i clienti aziendali a favore del loro profitto. Cosa c’è di male? Qualsiasi commerciante mira al profitto aziendale, è logico. La strategia di partire con prezzi in perdita per attrarre i clienti e poi man mano aumentarli non l’hanno certo inventata nella Silicon Valley. Di sicuro, ma un commerciante normalmente ha un sacco di concorrenza. Il mercato, quando funziona, regola la domanda e l’offerta. Ma le BigTech sono monopoli come non se ne sono mai visti. Di mercato neanche l’ombra. Così oggi chi vende su Amazon consegna circa il 45% del prezzo di vendita a Jeff Bezos. E lo fa perché lì ci sono tutti quelli che comperano. Ma se cercate un prodotto su Amazon oggi non vi viene fatto vedere quello più adatto a voi, ma quello del venditore che paga la percentuale più alta per apparire in cima alla lista. Vien quasi da rimpiangere i tempi in cui avevamo paura che gli algoritmi capissero troppo bene cosa volessimo. Adesso capiscono invece perfettamente che è meglio per l’azienda se comperiamo i prodotti di venditori che hanno pagato un buon prezzo per essere mostrati per primi. Le chiamano junk fees e sono dannose per il mercato tanto quanto il junk food per le nostre arterie.