I soliti colpi al cerchio e alla botte

Marcello Pelizzari
05.07.2018 04:05

Di Marcello Pelizzari - Non sono bastati i novanta minuti di San Pietroburgo con la Svezia. All'indomani, la Svizzera ha messo in piedi un altro teatrino. L'ennesimo di questo Mondiale che pareva promettere grandi cose ma si è rivelato il solito torneo da «vorrei ma non posso». La Federcalcio elvetica ha indetto una conferenza stampa a Togliatti. Una chance per leggere questo fallimento sportivo e – magari – annunciare una decisione forte in vista del nuovo ciclo? No. Capitan Stephan Lichtsteiner e il presidente Peter Gilliéron hanno schivato polemiche e domande scomode. Preferendo celebrare (sì, avete capito bene) il cammino della Nazionale in Russia. La storia si ripete. Prima di un grande evento dirigenti, allenatore e giocatori rilasciano dichiarazioni roboanti. Una volta mancato l'obiettivo, invece di chiedere scusa o quantomeno riconoscere di avere toppato, beh, dribblano i giornalisti facendo leva sul cerchiobottismo più becero.

La «Nazionale più forte di sempre» all'improvviso è diventata una squadra normale, al grido di «è già bello qualificarsi» o, peggio, «il cammino in Russia è stato positivo». Scusateci, ma non va bene. La crescita del calcio svizzero dovrebbe passare da un'analisi più secca della sconfitta e dalle conseguenti decisioni dolorose (anche logiche) da prendere. Da una presa di coscienza collettiva. Nel calcio non si può sempre perdonare o accettare passivamente il corso degli eventi. Gilliéron affermava a suo tempo: «Voglio lasciare la Russia a testa alta». La Svizzera al contrario fa rientro con il capo chino, dopo una Coppa del mondo senza acuti. Con un'aggravante: Vladimir Petkovic, fra i principali responsabili della débâcle ad immagine del suo nervosismo e della sua passività contro la Svezia, ieri non ha parlato. È rimasto lontano dai riflettori, mostrando così un'altra volta il lato debole. Una componente emersa già contro la Polonia due anni fa agli Europei e poi nella terribile notte di Lisbona.

L'immagine di condottiero (e di allenatore vincente) esce ridimensionata. Petkovic archivia un quadriennio di risultati considerevoli, buoni però solo per il ranking FIFA, per la sua autostima e per quella dei dirigenti federali. Nei tre momenti davvero importanti – la Polonia agli Europei, la «finalissima» di Lisbona e l'ottavo di San Pietroburgo – lui e la squadra sono affondati. Mostrando sempre evidenti lacune, tanto nel gioco quanto a livello di personalità e coraggio. Non riconoscere pubblicamente tutto ciò, a nostro giudizio, è un errore imperdonabile. Ma tanto va tutto bene, vero?