Il dollaro e l'illusione

La svalutazione competitiva di una moneta è una ricetta tanto antica quanto inefficace nel lungo periodo. L’Amministrazione Trump ora vuole giocare la carta di un dollaro debole e svalutato, ma così facendo i nodi strutturali degli USA sono destinati a ripresentarsi. Sulla carta la svalutazione della moneta sembra un gioco in cui si vince facile, ma in realtà non è così. Quella dei vantaggi ricavati dall’indebolimento della valuta è infatti una linea di corto respiro, una sorta di maxi aspirina che si prende ora ma che nel tempo esaurisce in ogni caso il suo effetto, lasciando senza soluzione i problemi di fondo.
Il dollaro ha già perso parecchio terreno, difficile dire quanto per volontà specifica di Trump e quanto invece per la sfiducia di investitori preoccupati per le incertezze politiche ed economiche suscitate dagli USA di oggi. Probabilmente si tratta un mix dei due fattori. Comunque sia, l’Amministrazione Trump pare intenzionata a puntare su un mantenimento e, se possibile, su un ampliamento della debolezza del biglietto verde. Tra gli obiettivi principali della gestione della svalutazione c’è quello di facilitare l’export statunitense e con esso la crescita economica USA.
La vicenda dei dazi spropositati di Trump ha mostrato una delle due facce della medaglia della presunta lotta al disavanzo commerciale americano, quella del freno all’import. L’altra faccia è appunto quella della ricerca di un aumento dell’export USA. L’incremento dell’export è in sé giusto - anzi, dovrebbe essere l’unico vero obiettivo, essendo i dazi all’import sbagliati - ma dovrebbe collegarsi a un incremento della competitività delle merci americane, non a una svalutazione della moneta che le renda meno care senza aumentarne qualità e attrattività. Guardiamo d’altronde a quanto è accaduto sul versante dei servizi, dove stanno anche le nuove tecnologie: senza puntare sull’indebolimento del dollaro, gli USA negli anni passati si sono rafforzati, con un export robusto che li ha posti - nei servizi stessi - in avanzo commerciale.
Naturalmente nel breve-medio periodo la svalutazione della moneta può in qualche modo facilitare le esportazioni. Ma nel lungo periodo, cioè negli anni, si rivela un’illusione. Se si ha una moneta debole ma ci si fa sorpassare dai concorrenti nella competitività delle merci, il problema si ripresenta. Tra i molti casi che confermano questa realtà, ci sono quello della vicina Penisola e quello della Svizzera. L’Italia ha lungamente cercato di ampliare l’export attraverso svalutazioni della lira, ottenendo risultati solo parziali e lasciando molte imprese a un livello non sufficientemente concorrenziale. Con l’adesione all’euro, che ha eliminato di fatto le svalutazioni competitive nell’area, molte aziende esportatrici italiane hanno dovuto cambiare produzioni e processi, aumentando per questa via la competitività. Certo non tutti i problemi sono stati risolti, ma l’export italiano è oggi nel complesso migliore rispetto all’epoca delle svalutazioni.
Quella della Svizzera è la storia di un Paese con moneta forte. Se funzionasse la ricetta della moneta debole, la Confederazione sarebbe molto più in basso nelle classifiche economiche. Invece le esportazioni elvetiche, ampiamente orientate alla qualità e al valore aggiunto, sono andate avanti nel tempo, di fatto senza svalutazioni competitive. Si può obiettare che la Banca nazionale svizzera si è impegnata nel frenare il franco, proprio per dare maggior spazio all’export. Questo è vero, ma è ben diverso: un conto è tentare di avere una moneta forte ma non fortissima, un altro conto è puntare su una moneta apertamente debole e svalutata. Il franco, d’altronde, è una valuta apprezzata che, come si è visto, non si lascia facilmente frenare, spesso nemmeno dalla BNS. Oggi l’export elvetico deve affrontare anche la sfida difficile degli ingiusti dazi USA. Ma ha una sua forza di fondo. Che deriva dalla qualità dei prodotti e dalla diversificazione dei mercati, non dalla moneta debole.