Il senso del lavoro

Molte persone nelle scorse settimane sono state in ferie. Hanno sospeso per qualche tempo il lavoro e poi lo hanno ripreso. Di buon grado? Di mala voglia? Perché? Che senso ha il lavoro?
I nostri tempi bizzarri sono stati caratterizzati da un puerile quanto infondato entusiasmo per la «fine del lavoro» (ben lo spiega l’economista italiana Laura Pennacchi in un libro acuto e profondo, Nonostante Hobbes. Lavoro, antropologia, democrazia, Roma 2025). Anche parte della sinistra ha espresso fastidio verso il lavoro e l’etica del lavoro; si sono persino celebrate le «grandi dimissioni», esaltate come manifestazione del rifiuto del lavoro e ricerca della libertà fuori di esso (in realtà un normale ricambio di manodopera). Eppure i cambiamenti che avvengono nel mondo del lavoro, con l’erosione delle relazioni lavorative stabili, sono un pericolo per le democrazie, un pericolo che viene superficialmente ignorato. Eppure sappiamo che a votare Trump, Le Pen e Meloni sono cittadini in gran parte maschi, privi del titolo della laurea, risentiti con l’establishment perché privati dello status che in passato proveniva dal lavoro oggi degradato, dequalificato, sottopagato.
Ma questo altro non è che una prova del fatto che se il lavoro si deteriora si deteriora anche la democrazia. Perché il lavoro non è tutto e soltanto sofferenza, e nemmeno semplicemente un modo per guadagnarsi da vivere. Il lavoro è, dovrebbe essere, il modo per realizzare la propria individualità e autonomia. Quando è benefico, il lavoro induce spirito di creatività e progettualità; alimenta l’intelligenza, insegna il rispetto, incoraggia la solidarietà. Certo che ci sono lavori ripetitivi, noiosi, che non sollecitano abilità e intelligenza, lavori faticosi e sottopagati. Ma allora bisogna impegnarsi affinché diventino lavori adeguati, non abolire il lavoro in sé e dedicarsi a...a che cosa? Ai videogiochi, cui pare si applichi con fervore già il cinquanta per cento della popolazione dei paesi benestanti?
La sfida che dobbiamo affrontare non è vivere senza lavoro ma come vivere e lavorare in modi degni e retribuiti, adeguati, creativi e progettuali. Allora si smetterebbe di denigrare il lavoro, di dipingerlo vile, «come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma...si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena». Anzi, «l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». Parole di Primo Levi, internato, scrittore e chimico (da La chiave a stella, 1978).