Medio Oriente

Il silenzio dei Governi, le tifoserie da stadio e gli insulti: su Gaza stiamo sbagliando tutto

Davanti all'inazione delle istituzioni e alle continue liti di chi ha posizioni opposte sulla questione mediorientale, bisognerebbe mettere da parte le bandiere politiche e sposare una sola causa: il futuro dei civili (palestinesi e israeliani)
Michele Montanari
07.10.2025 12:00

Quando comuni cittadini decidono di affrontare un viaggio in mare per recarsi in un pericoloso teatro di morte, vuol dire che qualcosa, nel nostro sistema sociopolitico, non funziona. Quando milioni di persone scendono nelle piazze, arrivando a compiere vandalismi e azioni di violenza in nome della pace (il più assurdo dei paradossi), significa che le istituzioni sono assenti. Quando un uomo viene aggredito per le sue origini e per il suo credo religioso, o sulla saracinesca di un panificio compare la scritta «ebrei di merda bruciate tutti» (è successo a Roma), allora abbiamo davvero toccato il fondo.

Su un tema doloroso come il massacro nella Striscia di Gaza, con scene inaccettabili di bambini massacrati o malnutriti, la gente non può restare in silenzio. È inevitabile sentirsi colpiti al cuore se si ha anche solo un briciolo di coscienza. Il problema è che il dialogo e il confronto sembrano esser spariti dalle nostre agende. Perché a esser scomparsa, prima di tutto, è la voce di chi ci governa, a quanto pare gli unici rimasti impermeabili alle atrocità che avvengono in Medio Oriente.

Nelle scorse ore la RSI si è vista costretta a bloccare i commenti su Facebook sotto all’intervista a Vanni Bianconi, il ticinese membro della Global Sumud Flotilla da poco rientrato in Svizzera dopo esser stato incarcerato in Israele. È davvero questa la società democratica occidentale? Attacchi, insulti e assenza di dialogo? Peggio, tifo da stadio sulla pelle di migliaia di vittime.

E pure chi avrebbe le carte in regola per spiegare con cognizione di causa gli orrori di Gaza, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, si rende protagonista di teatrini insopportabili. Nelle scorse ore, la giurista italiana è letteralmente fuggita dallo studio durante la trasmissione In Onda, su La7, perché in disaccordo con il suo interlocutore, Francesco Giubilei, direttore scientifico Fondazione Alleanza Nazionale, «colpevole» di aver citato la posizione sul genocidio della senatrice a vita Liliana Segre, superstite all’olocausto.

Un sonno della ragione che fa rima con sonno delle istituzioni, le uniche in possesso delle armi legali e diplomatiche per far qualcosa. Perché se la responsabilità di agire se la prendono i cittadini, con tutto il rispetto, non può che degenerare in violenza, insulti, razzismo e quanto di peggio si possa fare. Tutto questo mentre una tragedia umana vergognosa viene strumentalizzata a destra e a manca, come fosse un becero oggetto di propaganda per ottenere più consensi. Fanno venire i brividi le fredde analisi di certi politici sulla situazione in Medio Oriente, per sostenere una causa o quell'altra, quasi fosse una partita di RisiKo!. Così come provocano ribrezzo le azioni violente dei cittadini, talvolta di matrice antisemita, in grado di squalificare pure la più giusta delle cause.

Davanti a una spirale di morte che ha trascinato troppi civili nell'oblio e a una società più spaccata che mai, allora occorre fare un passo indietro bello lungo e guardare la situazione mediorientale da un punto di vista più elevato (nei suoi due sensi: più in alto, per vedere tutte le vittime lasciate sul territorio mediorientale, ma pure più nobile intellettualmente). Non si tratta più di fare il tifo per Israele o per i palestinesi, ma per gli esseri umani. Questo dando per scontato che le azioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu sono sproporzionate, indegne per una democrazia che abbiamo sempre visto vicina a quelle occidentali, e che nessuno può stare dalla parte dei terroristi di Hamas. Gli attentati di due anni fa non devono trovare alcuna giustificazione. Proprio come le violenze israeliane in Cisgiordania e a Gaza prima di quel maledetto 7 ottobre (lo stesso vale per il tiro al bersaglio sui palestinesi ordinato dal primo ministro dello Stato ebraico dopo gli attentati). Nessuna scusa per ognuna di queste tragedie, sintomi di come la comunità internazionale (giornalisti compresi) stesse sonnecchiando già prima della strage compiuta da Hamas, non cogliendo i segnali di una polveriera pronta ad esplodere completamente. 

Oggi che le fiamme sono divampate è davvero arrivato il momento - con colpevole ritardo, certo - che i governi intervengano. Il piano globale per porre fine al conflitto di Gaza del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, annunciato lo scorso 29 settembre, è ammirevole per gran parte della comunità internazionale, seppur imperfetto, ma non può sostituire l’azione urgente che i Paesi devono intraprendere per proteggere i civili dopo due anni di gravi abusi in Israele e Palestina. È la presa di posizione della ONG Human Rights Watch, che sposiamo in pieno, perché la Storia prima o poi busserà alle nostre porte e chiederà il conto di tutti quei morti. E non si deve commettere l'errore di paragonare il Medio Oriente all'Ucraina. Kiev è stata supportata in ogni modo possibile e immaginabile (anche per proteggere i civili, ci raccontano da anni i politici) per scacciare l'invasore russo, con armi, soldi e dure sanzioni contro Mosca. A Gaza non si può parlare di «guerra», non c'è nessun esercito da armare, ma terroristi che usano i civili come scudo umano piuttosto che liberare gli ostaggi israeliani.

I governi, allora, dovrebbero adottare misure immediate, tra cui embarghi sulle armi, sanzioni mirate e sostegno alla Corte penale internazionale (CPI), in conformità con i loro obblighi giuridici internazionali per prevenire e fermare le violazioni commesse dalle parti in conflitto, indipendentemente dal fatto che il piano Trump vada avanti. Questo perché mentre i negoziati sono in corso, la gente continua a morire. E i crimini atroci commessi in Israele e in Palestina negli ultimi due anni hanno avuto (e avranno ancora) un impatto devastante sulla popolazione civile: migliaia di persone sono state uccise, mutilate, affamate, sfollate con la forza, tenute in ostaggio o detenute illegalmente. Mentre città, case e interi quartieri sono stati rasi al suolo. Si tratta di una battaglia che non dovrebbe più avere due bandiere contrapposte, ma una sola: quella che avvolge il futuro dei civili. E chi ci governa dovrebbe sventolare solamente quel vessillo, anche adottando misure lontane anni luce dal proprio credo politico.