Il treno dell’IA

I toni e soprattutto le decisioni del governo americano hanno risvegliato il nostro continente. E questo è un bene – anche se è l’unico aspetto positivo. Perché, per esempio in tema di intelligenza artificiale, rischiamo di fare gli stessi errori: le scoperte vengono fatte in Europa e poi però sviluppate e commercializzate negli USA. È accaduto per internet, scoperto nel 1991 da Tim Berners-Lee al Cern di Ginevra. Era europeo (d’accordo, inglese) anche il matematico Alan Turing che per primo ha pensato a una macchina che potesse ragionare. Lo stesso è accaduto con i telefonini, tra i primi c’erano Nokia e Ericsson, finlandesi e svedesi, ma l’americana Apple ha spiazzato tutti nel 2004. E anche i cloud dove sono custoditi tantissimi nostri dati sono americani, nonostante valide alternative europee. Certo, per la maggior parte delle aziende è ragionevole affidare ai cloud la gestione e lo sviluppo dell’informatica siccome non fa parte del core business. Ma la somma di tutte queste dipendenze dal software statunitense oggi inquieta parecchio. Una subordinazione che si spiega solo in parte. L’Europa, se si include anche l’Inghilterra, non ha proprio motivo di sentirsi economicamente subordinata agli Stati Uniti. Infatti, se si prende il PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto, è economicamente più forte degli USA - di fatto risultano “solo” terzi dopo Cina e Europa. E poi per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale non occorre avere così tanti capitali. La cinese DeepSeek non è affatto peggio di ChatGPT ed è costata molto, molto meno.
Ma perché le intuizioni e scoperte europee sono cresciute negli Stati Uniti, come mai siamo diventati dipendenti e vulnerabili quando potrebbe essere il contrario?
Una parte della risposta potrebbe essere che negli USA la mancanza di regole ha scatenato uno sviluppo a briglie sciolte. Avevano cominciato le aziende come Google, Meta e Apple - “don’t ask for permission” era il loro mantra. E continua così anche oggi, senza chiedere il permesso, le aziende dell’intelligenza generativa si sono lanciate a rastrellare tutto quello che c’è da leggere online senza curarsi dei diritti d’autore. Nessuna di loro ha pensato di dover indennizzare gli autori dei testi o delle immagini. Qualche ostacolo, è vero, lo incontrano. Non tutti sono d’accordo a regalare i propri contenuti. Il New York Times ha portato in tribunale OpenAI e Microsoft, la sentenza non c’è ancora. In un altro caso i tribunali hanno dato ragione all’agenzia Reuters contro la Ross Intelligence che aveva utilizzato la loro raccolta di testi legali. Anche la Getty Images ha ottenuto un indennizzo.
Oggi i sistemi di intelligenza generativa non hanno più niente da leggere. Per allenare l’intelligenza generativa occorrono montagne di testi e immagini. E devono essere contenuti affidabili, da fonti credibili, altrimenti le chatbot generano risposte poco intelligenti. Sembra che nel 2021 ChatGPT avesse già usato tutti gli scritti inglesi attendibili e seri reperibili su internet. La corsa a costruire il miglior sistema di intelligenza generativa è anche una gara ad accaparrarsi tanti più testi e immagini possibili. Secondo una ricerca del NYT sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che le grandi aziende tecnologiche si siano sistematicamente servite in modo poco ortodosso di testi soggetti a copyright, mettendo in conto di violare la legge. Le aziende si difendono affermando che allenare i loro sistemi non danneggia nessuno e chiedono all’amministrazione USA di intervenire a loro favore. Contano di più i diritti, in questo caso degli autori, o il vantaggio competitivo? L’approccio europeo potrebbe essere più rispettoso. Ma rimanere indietro per poi dipendere dall’intelligenza artificiale americana non va bene, si dovrà trovare una via percorribile – non stile Far West – ma che tenga conto di tutti gli interessi in gioco. Possiamo farcela.