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Il vagoncino ticinese è legato al treno economico globale

L’economia svizzera, trovandosi al centro del continente europeo, risente di ciò che accade attorno a essa e le tariffe doganali del presidente Donald Trump hanno incrinato l'equilibrio
Generoso Chiaradonna
10.11.2025 06:00

Stando agli ultimi dati divulgati dall’Ufficio cantonale di statistica, il Ticino non è immune dalle attuali dinamiche economiche, nazionali e internazionali, segnate da una persistente incertezza. La situazione geopolitica – con una guerra nel cuore dell’Europa, un Medio Oriente che ancora non conosce una vera pace ma soltanto una fragile tregua e la politica neo-protezionista degli Stati Uniti – riverbera i propri effetti anche in questo angolo di Svizzera, che rappresenta circa il 5% della popolazione nazionale e contribuisce per circa l’8% al PIL svizzero. Alla fine del secondo trimestre dell’anno, il PIL cantonale – secondo le previsioni dell’istituto CREA dell’Università di Losanna – è rimasto fermo. Fatta eccezione per i primi tre mesi, quando era cresciuto dell’1,4%, la spinta alla crescita sembra essersi esaurita. Secondo invece i ricercatori del BAK Economics di Basilea, alla fine di quest’anno il PIL cantonale dovrebbe mantenersi attorno all’1%, in linea con le stime nazionali – riviste, tuttavia, al ribasso.

Le ultime previsioni di giugno hanno corretto le stime precedenti e non sono da escludere ulteriori revisioni. A colpire in prima battuta sono i dati del commercio estero. A livello nazionale, per esempio, le statistiche evidenziano le sfide che caratterizzano le relazioni internazionali di questo 2025. La Svizzera, almeno per una parte del suo export industriale, è soggetta a dazi statunitensi del 39%. A titolo di paragone, le esportazioni dell’Unione europea verso gli Stati Uniti sono gravate da tariffe doganali del 15%. È la stessa aliquota che colpisce il piccolo Principato del Liechtenstein, che – ironia della sorte – condivide la medesima unione doganale con la Confederazione elvetica. È un po’ come se le merci di Malta o di Cipro, pur appartenendo all’UE, ricevessero un trattamento doganale diverso da quello degli altri partner europei. Fanno eccezione ai dazi del presidente Donald Trump l’oro da investimento e – per il momento – il settore medicale e farmaceutico, che insieme rappresentano quasi l’80% dell’export svizzero verso gli Stati Uniti. La dipendenza dell’economia industriale svizzera da quella statunitense è dunque elevata: circa la metà dell’avanzo commerciale dell’intero comparto farmaceutico deriva proprio da questo mercato, che resta cruciale per le multinazionali come Roche e Novartis.

A pagare dazio, come si suol dire, sono invece le piccole e medie imprese del settore MEM (Meccanica, Elettronica e Metallurgia), oltre all’orologeria, altra industria simbolo dello Swiss Made. Queste realtà non possono permettersi strategie di delocalizzazione spinte.

Rimanendo in Ticino, il calo dell’export non riguarda solo gli Stati Uniti – mercato marginale per la manifattura locale – ma anche l’Italia, mercato di sbocco naturale, e la Germania. Quest’ultima economia, strettamente complementare a quella italiana grazie ai subfornitori dell’automotive del Nord-Est della Penisola, è entrata in crisi tre anni fa e da allora non è più la cosiddetta locomotiva d’Europa. La crisi industriale tedesca è frutto di una combinazione di fattori strutturali ed economici: la transizione energetica, il rallentamento della domanda globale e la riduzione del mercato cinese. I dazi statunitensi hanno aggiunto un’ulteriore difficoltà, aggravando le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina. E se la locomotiva più importante del continente rallenta, anche i vagoni – grandi o piccoli che siano – non possono più procedere alla stessa velocità. Vale anche per il «vagoncino» dell’economia ticinese che è a sua volta legato a quello più grande svizzero. Tutti, però, dipendono obtorto collo anche dalle decisioni prese alla Casa Bianca. È per questo che le tariffe doganali – e non solo – del presidente Donald Trump hanno incrinato un equilibrio che si protraeva dalla fine della Guerra Fredda e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90.

L’economia svizzera, trovandosi al centro del continente europeo, risente di ciò che accade attorno a essa. Gli accordi bilaterali con l’Unione europea la vincolano alle dinamiche di Bruxelles, ma al tempo stesso le garantiscono una certa autonomia per ampliare la propria rete di accordi di libero scambio con altre economie mondiali. Ecco perché diventano sempre più interessanti i Paesi del Mercosur (Sud America), l’India e la Cina. Con quest’ultima esiste già un accordo di libero scambio, in vigore dal 2013 e in revisione dal 2024 per ampliarne i benefici. Il prossimo a essere ratificato sarà con la popolosissima India.

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