Il commento

Indignazione e vergogna per lo scandalo di Credit Suisse

Dinanzi ad un simile disastro è doveroso porsi domande su cause e responsabilità
Tito Tettamanti
Tito Tettamanti
31.03.2023 06:00

Sono uno svizzero orgoglioso del proprio Paese e sono un capitalista convinto, ma per l’età non più praticante. Lo scandalo e scioglimento del Credit Suisse (dopo anni di notizie negative) mi hanno indignato e la perdita di reputazione per il Paese preoccupato. Dinanzi ad un simile disastro è doveroso porsi domande su cause e responsabilità.

Ho passato la maggior parte degli anni ’80 a New York nel campo della finanza e ciò mi ha dato qualche utile conoscenza di uomini e cose. Penso che lo tsunami odierno ha un’onda molto lunga e forse le origini le troviamo negli anni ’80. Le nostre banche nel dopoguerra erano diventate custodi di enormi masse patrimoniali ed i banchieri hanno probabilmente dimenticato che parte del risultato era dovuto alla reputazione di fiducia e serietà della Svizzera. Inebriati dal successo e desiderosi di giocare un ruolo a livello mondiale hanno pensato di far propria una parte dei grassi pascoli degli USA, particolarmente redditizi per le «Investment Bank». Come succede spesso a chi ha troppi soldi, hanno comperato strapagandole banche d’affari americane, dimenticando che gran parte del valore delle stesse era nei dirigenti, mercenari pronti a passare alla concorrenza. Non si sono resi conto che negli USA giocavano nel massimo girone, scontrandosi con grandi professionisti, con una cultura di estrema durezza non priva di spregiudicatezza che puniva i dilettanti.

Non va dimenticata l’arroganza dell’élite finanziaria svizzera, concentrata con notevole peso e con molta influenza sul Paese a Zurigo. Nel Credit Suisse vengono effettuate scelte personali che hanno pesantemente influenzato lo sviluppo negativo. Walter Kielholz, autorevole presidente del Consiglio di amministrazione (con lui le azioni perdono il 40%) assume un americano quale CEO che porta con sé una inclinazione al rischio, parte della sua cultura ma non della nostra. Designa poi quale successore alla presidenza Urs Rohner, brillante avvocato senza cognizioni di tecnica bancaria. Aveva il sostegno della élite zurighese, ma per competenza e carattere inadatto a contrastare il CEO americano. Lui presidente le azioni perdono il 77%. Per anni il settore dell’attività di banca d’affari non copre il costo dei capitali impiegati. Succede a Dougan, l’americano, che in un anno ha incassato 90 milioni di remunerazioni, l’africano Tidjane Thiam costato 70 milioni, esperto di assicurazioni ma senza esperienze dirigenziali bancarie. Lascerà la banca tra l’altro per aver controllato tramite investigatori la vita privata di dirigenti. Atteggiamenti che fanno a pugno con la nostra cultura di fiducia. L’UBS, la banca concorrente, senza andare lontano, in Ticino, trova Sergio Ermotti, che grazie alla sua esperienza americana quale dirigente di una grande Investment Bank, la ristruttura con successo ridimensionando la rischiosa attività di banca d’affari e potenziando la gestione patrimoniale. Non per nulla oggi lo richiamano alla testa dell’UBS nell’interesse della piazza finanziaria svizzera. Auguri!

Ci chiediamo se anche gli organi di controllo (Finma in particolare) non si siano dimostrati troppo arrendevoli con il Credit Suisse, nonostante il succedersi di incidenti di percorso, scandali, perdite miliardarie in affari che lasciano allibiti per l’insipienza. Organi di controllo distratti perché occupati a sorvegliare chi di noi ritira qualche biglietto da mille, subito sospettato di riciclaggio di valuta. Ma alla mia indignazione di svizzero verso una élite dimostratasi tanto arrogante quanto incompetente aggiungo quella del capitalista. Una delle caratteristiche del sistema capitalistico è l’assunzione del rischio, si può guadagnare ma anche giustamente perdere e eventualmente fallire. Nelle banche, è stata introdotta una nuova forma di capitalismo per i manager: comunque vada agli alti livelli si incassano bonus milionari e non si fallisce mai. Perdite avute dalle subprime sono state originate da dirigenti con vaghe cognizioni di aritmetica innamoratisi degli algoritmi. Ma volendo partecipare ai giochi non si poteva far altro. Falso. I banchieri ginevrini – forse anche perché allora garantivano con il proprio patrimonio personale le eventuali perdite – sono rimasti a gestire patrimoni, come da secoli fanno, con sempre maggior successo. L’inaccettabile arroganza è confermata dal fatto che non abbiamo sentito dall’ex presidente Rohner né dai suoi colleghi una parola di scusa per quanto successo o un accenno alla disponibilità a restituire qualche milione per alleviare la situazione degli impiegati. E così, lo dico con rammarico, si scredita il capitalismo.

Quando si ha la coscienza sporca, si cerca di qualificarsi quali persone sensibili e progressiste. Ecco quindi che si distraggono dall’impegno professionale in momenti difficili, e con clienti che scappano, 1.800 dirigenti obbligati a seguire corsi su «diversità e inclusione» e si aprono piattaforme per dibattere fra collaboratori su origini etniche, di genere e orientamento sessuale. Tutto meritorio senz’altro, ma data la situazione qualche corso, specie per i dirigenti, di sana gestione bancaria non sarebbe stato più utile? Una élite, se responsabile, è ora chiamata ad evitare che la «distruzione creativa» di Schumpeter, economicamente utile, venga sostituita da tecniche finanziarie che arricchiscono chi distrugge ricchezza. Aspettiamo i fatti.

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