Instabilità targata USA

Gli Stati Uniti guidati dal presidente Trump sono oggi fonte di instabilità, a livello sia politico sia economico. Dopo molti decenni in cui gli USA, fossero condotti da repubblicani o da democratici, sono stati in sostanza un punto di riferimento che dava stabilità all’intero Occidente, si assiste ora a un cambiamento radicale. Pur tra alti e bassi e pur tra accordi e divergenze sui singoli capitoli, gli Stati Uniti sono stati sin qui l’alleato maggiore, con cui qualche volta si può discutere ma che comunque sui fattori fondamentali alla fine dà condivisione e certezze. Questo quadro del passato è ora fortemente intaccato dalla linea di Trump. Vediamo qui il versante economico. Al di là di quelle che saranno le percentuali definitive, i dazi rivolti contro il resto del mondo, dunque anche contro gli alleati, non solo danneggeranno i commerci e la crescita economica a livello mondiale (USA inclusi), ma anche introdurranno incertezze sulle prospettive. Un’Amministrazione americana che impone oggi tali barriere economiche, per di più con continui mutamenti sui numeri e sulle date, domani cosa potrebbe ancora combinare? Si sa che alle economie e ai mercati l’incertezza non piace, ma le conseguenze della linea di Trump portano appunto maggiore incertezza.
Anche una volta fatti i necessari accordi (eufemismo, perché si tratta di un’offensiva USA), resterà la spada di Damocle di altre eventuali richieste americane. I conti pubblici degli Stati Uniti sono un rischio per loro e, in parte, per i mercati più in generale. Il debito pubblico degli USA, secondo il Fondo monetario internazionale, quest’anno è al 122% del PIL e, senza reali cambiamenti di rotta, potrebbe essere al 128% nel 2030. Per dare un’idea, l’Eurozona ha quest’anno l’88% e potrebbe avere il 92% tra cinque anni; la Svizzera ha ora il 36% e potrebbe essere al 32% nel 2030. C’è stato un tempo in cui il debito pubblico americano non era una preoccupazione, ma vari presidenti hanno lasciato che si gonfiasse e ora Trump anche nel suo secondo mandato sembra voler accelerare lungo questa strada. La narrazione secondo cui la ripresa economica e gli introiti dei dazi porterebbero a una riduzione significativa del debito per ora non ha basi solide: la crescita economica 2025-26 negli USA è prevista in rallentamento e anche gli incassi legati ai dazi, per quanto considerevoli, non potranno da soli far invertire la rotta.
Quello che sta succedendo nel frattempo è che i titoli di Stato americani, pur restando importanti, sono un po’ meno richiesti di prima. E se i conti degli USA portassero a forti turbolenze su questi titoli, ci sarebbero riflessi anche per i mercati internazionali, costretti ad affrontare loro malgrado cambiamenti non facili sul versante delle obbligazioni pubbliche della maggiore economia mondiale. Il dollaro americano è debole non solo perché Trump lo vuole così, ma anche perché l’economia e il bilancio pubblico degli Stati Uniti suscitano timori tra gli investitori. La moneta bassa facilita l’export ma rende più caro l’import, su cui già pesano i dazi. L’inflazione americana è un’incognita, proprio perché l’effetto congiunto di dazi e dollaro debole potrebbe farla salire ancora; in aprile era al 2,3%, in maggio al 2,4%, in giugno al 2,7%, vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi. Trump attacca Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, perché vuole che abbassi i tassi di interesse, in modo da pagare meno il debito e da fornire più supporto all’economia USA. Ma la Fed sin qui ha resistito, anche perché vede molto bene il pericolo, con tassi più bassi, di un’inflazione molto più alta. Può darsi che prima o poi Trump siluri Powell, ma in quel caso certo non avrà fatto un buon servizio né agli Stati Uniti né al resto del mondo. L’autonomia delle banche centrali nei sistemi democratici è preziosa. Andare contro questa autonomia significa creare altre incertezze, altra instabilità.