Il commento

La fine di un’economia «drogata»

Le recenti turbolenze dei mercati finanziari hanno rilanciato lo spettro di politiche monetarie estremamente restrittive
Alfonso Tuor
12.05.2022 06:00

Le recenti turbolenze dei mercati finanziari hanno rilanciato lo spettro di politiche monetarie estremamente restrittive volute per combattere l’aumento dell’inflazione che ci condurranno inevitabilmente in recessione. Ma la realtà non corrisponde a questa narrazione. Negli Stati Uniti i tassi di interesse reali (ossia depurati dall’inflazione) sono da oltre tre anni negativi e lo sono ancora tuttora, ciò vuol dire che non bastano per compensare l’erosione del potere d’acquisto della moneta. Altrettanto vale per la zona euro. Quindi i primi aumenti del costo del denaro da parte della Federal Reserve hanno semplicemente reso meno accomodante la politica monetaria americana. In Europa la BCE per il momento non si è ancora mossa. Ma quello che conta non è la realtà attuale, bensì le aspettative. I dirigenti della FED hanno chiaramente preannunciato ulteriori aumenti che dovrebbero far salire i tassi guida americani al 3% circa entro la fine dell’anno. Quindi con un’inflazione superiore all’8% la politica monetaria statunitense rimarrebbe ancora accomodante, sebbene l’economia continui a crescere e sebbene si sia già messa in moto una rincorsa tra prezzi e salari che indica che l’inflazione si è radicata stabilmente nell’economia. La Banca centrale europea non ha invece ancora scoperto le proprie carte. Quindi verso la fine di quest’anno la Federal Reserve dovrà decidere se continuare a far salire il costo del denaro e provocare una recessione oppure se interrompere l’aumento dei tassi di interesse e dunque abbandonare la lotta all’inflazione. Già oggi cominciano ad emergere i segnali di questa scelta. Si ritorna a parlare di un rincaro temporaneo che si stabilizzerà appena si ridurrà la domanda di beni e servizi e si risolveranno le strozzature nelle filiere industriali e inoltre visto che i dati del rincaro scenderanno per un effetto statistico, poiché cominceranno ad essere confrontati con quelli dei mesi corrispondenti dell’anno scorso che registravano già la resurrezione dell’inflazione. Ma l’impennata dei prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari rendono poco credibili queste speranze.

L’attuale nervosismo di mercati e autorità politiche e monetarie è dovuto alla consapevolezza che si conclude il periodo di un’economia «drogata» da tassi di interesse zero o addirittura negativi e dalla continua «stampa» di nuova moneta. Queste politiche varate all’indomani della crisi finanziaria del 2008 e rafforzate durante la pandemia hanno creato una crescita artificiale e hanno modificato il comportamento degli attori economici. L’inflazione, che è stata creata da queste politiche, ha permesso ad esempio di stabilizzare il rapporto tra PIL e debito pubblico. Infatti l’aumento del PIL nominale dovuto al rincaro ha «nascosto» l’aumento del debito degli Stati, facendo sì che in Italia questo rapporto sia sostanzialmente stabile nonostante l’aumento delle spese pubbliche. Inoltre i tassi bassi e gli acquisti di obbligazioni statali da parte delle banche centrali hanno ridotto il costo del servizio di questi debiti. Il basso costo del denaro ha anche favorito l’indebitamento privato e favorito l’esplosione degli indici borsistici. Quindi sarà più oneroso per gli Stati (soprattutto quelli europei) aumentare la spesa pubblica, mentre questo piccolo aumento del costo del denaro tenderà a ridurre i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Quindi è prevedibile una frenata della crescita economica. D’altra parte, i mercati finanziari hanno cominciato a spurgare gli eccessi degli ultimi anni e lasciano gli investitori in una situazione di grande incertezza, poiché non sanno dove rifugiarsi dato che la FED aumenta i tassi di interesse, l’inflazione sale e crescono i timori di una recessione e quelli legati agli effetti del prolungarsi della guerra in Ucraina. Se queste sono le probabili conseguenze economiche, ve ne sono anche politiche, poiché l’inflazione è in realtà una «tassa» che colpisce soprattutto pensionati e ceti medi e bassi. Quindi accentua le disuguaglianze e può favorire l’esplosione di forti tensioni sociali.