La guerra e la lezione di Compiègne

L'EDITORIALE DI GIANCARLO DILLENA
I nomi scolpiti di chi si sacrificò nella guerra ad Harward.
Giancarlo Dillena
Giancarlo Dillena
10.11.2018 06:00

di GIANCARLO DILLENA - In questi giorni si ricorda il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. Ma è giusto chiamare così l'armistizio firmato a Compiègne l'11 novembre 1918? In effetti si può discutere sul fatto che «la guerra europea», come era stata chiamata nel '14, si sia davvero conclusa in quel momento. Si smise di sparare, certo, fermando una carneficina durata oltre quattro anni e che aveva fatto 17 milioni di morti. Ma si gettarono le basi di una vera pace? O piuttosto, parafrasando von Clausewitz, si dovrebbe dire che quell'armistizio non era che la continuazione della guerra con altri mezzi? Le clausole, confermate l'anno dopo con il trattato di Versailles, riflettevano logiche diverse dalla ricerca della pace e della stabilità per il futuro. L'impostazione era quella di un regolamento di conti volto a mettere in ginocchio la Germania. La Francia era guidata dall'ossessivo desiderio di rivalsa per l'umiliazione subita nel 1870, che negli anni non aveva fatto che crescere.

Per la Gran Bretagna era l'occasione di riaffermare una volta per tutte la propria supremazia navale, togliendo di mezzo puramente e semplicemente la flotta tedesca (ne impose la consegna e l'internamento a Scapa Flow (dove si sarebbe in seguito autoaffondata). Per ambedue le potenze vincitrici v'era poi la ghiotta opportunità di ampliare i rispettivi domini coloniali, a spese di Berlino e dei suoi alleati turchi. Il tutto mentre dalla scena europea sparivano due attori che avevo svolto un ruolo di primo piano fino al '14: l'impero austro-ungarico, dissolto nei suoi rivoli nazionali, e quello zarista, risucchiato dalle convulsioni rivoluzionarie. C'erano sì gli Stati Uniti, che si profilavano come nuova potenza in divenire. Ma questo cammino sembrava ancora lungo. Tanto valeva dare corda alle buone intenzioni del presidente Wilson e al suo sogno di una Società delle Nazioni in grado di fungere da regolatore preventivo dei futuri conflitti.

Le vere scelte politiche sarebbero state fatte altrove. Secondo le vecchie logiche. Così i «sonnambuli» del '14, come Christopher Clark ha acutamente definito i gruppi dirigenti che avevano portato l'Europa alla guerra, continuarono a muoversi da sonnambuli, incapaci di vedere che il revanscismo francese, calcando la mano sulla crisi economica tedesca, avrebbe innescato un ancor più devastante senso di rivalsa da parte del vecchio nemico. E che la frammentazione della nuova carta geografica europea, pur con la componente tedesca drasticamente ridimensionata, non sarebbe stata un fattore di tranquillità ma una nuova, potenziale polveriera, offerta all'avanzata delle emergenti e aggressive ideologie totalitarie.

Con buona pace della Gran Bretagna, decisa a occuparsi in primo luogo del suo impero (senza cogliere la portata dei primi scricchiolii che lo percorrevano) e a starsene lontana il più a lungo possibile da una nuova, traumatica esperienza continentale come quella delle fangose trincee della Somme. Ma l'illusione sarebbe durata poco. Quella che gli idealisti di allora chiamavano «l'ultima delle guerre», tanto terribile da non permettere di pensarne altre ancor più tremende, era sì conclusa sui campi di battaglia. Ma sarebbe continuata attraverso le conseguenze di un armistizio pensato non in chiave di pace e di ricostruzione ma di vendetta e di supremazia. Una strada che avrebbe portato, vent'anni dopo, ad un altro, ancora più sanguinoso conflitto. E si sarebbe dovuto attendere un nuovo dopoguerra, con alle spalle 40 milioni di morti (erano stati 17 sui campi di battaglia del '14-18) per far comprendere ai vincitori che la giusta soluzione del problema europeo sarebbe stato di accomunare vincitori e vinti in un progetto di rilancio economico che aiutasse a lasciarsi finalmente alle spalle le ataviche ruggini. Secondo l'odierna narrazione in auge nel Vecchio Continente ciò avvenne in primo luogo perché i vecchi sonnambuli lasciarono il posto ad una nuova élite dirigente capace di guardare finalmente lontano, di sfidare i pregiudizi secolari e di gettare le basi di quella che sarebbe diventata l'Unione europea.

Fu indubbiamente una componente importante. Anche se le decisioni determinanti furono prese altrove, oltre Atlantico, con l'avvio del piano Marshall, volto tanto a risollevare l'Europa devastata quanto a costituire su quel suolo un baluardo solido e coeso, di fronte alla nuova incombente minaccia sovietica. E il paradosso è che fu una nuova guerra, questa volta fortunatamente «fredda», a garantire le condizioni di stabilità che avrebbero permesso l'affermarsi di un reale cambiamento nei rapporti fra Europei. Poi sono venute la caduta del muro, la dissoluzione di un altro impero, le nuove tensioni in un panorama frammentato di rinnovata instabilità, che evoca sinistri fantasmi di situazioni già viste. E rischi di rinnovato sonnambulismo. Si ricordi dunque Compiègne. E quello che seguì.