La nuova dimensione del Tour de France

Il Tour de France è probabilmente entrato in una nuova dimensione, se non proprio in una nuova era. È vero: la Grande Boucle ha saputo superare anni estremamente complicati e non è mai stata tradita dal suo pubblico: ha insomma sempre mantenuto il prestigioso primato di corsa più importante del mondo. Eppure l’edizione che si è chiusa ieri con la tradizionale passerella sui Campi Elisi ha suscitato un entusiasmo – a tutti i livelli – che non si vedeva da tempo. Il merito è di due ragazzi pieni di talento, Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar, che si sono dati battaglia praticamente dal primo all’ultimo giorno. La corsa, si usa dire, la fanno più i corridori che il tracciato. E il Tour, giorno dopo giorno, ha visto nascere una di quelle rivalità destinate a entrare nella storia del ciclismo. Un dualismo che potrebbe durare anche a lungo e che porta fisiologicamente gli appassionati a parteggiare per l’uno o per l’altro.
La leggenda della «petite reine» nasce e si nutre d’altronde con i duelli come quello che ha visto protagonisti il 25.enne danese e il 23.enne sloveno. Coppi e Bartali, Kübler e Koblet, Merckx e Gimondi, Saronni e Moser, solo per citarne alcuni. E come nella famosa foto che immortala il passaggio di una borraccia da Coppi a Bartali – o da Bartali a Coppi? – anche la sfida tra Vingegaard e Pogacar ha già la sua immagine iconica. La stretta di mano tra i due – dopo che il danese ha atteso lo sloveno, vittima di una caduta in discesa nell’ultima tappa pirenaica – è già diventata un simbolo della Grande Boucle. Il segno di una battaglia all’ultima goccia di sudore, condotta però sui binari del reciproco rispetto. Tutto ciò che piace ai veri amanti delle due ruote. I due, sulle Alpi e sui Pirenei, se le sono date di santa ragione e fa sorridere pensare che a trionfare sia stato il rappresentante di un Paese, la Danimarca, la cui vetta più alta – il Mollehoi - culmina a 171 metri sul livello del mare.
Sì, il Tour de France è entrato in una nuova dimensione perché Vingegaard e Pogacar hanno corso per vincere. Non per non perdere. E c’è una bella differenza. Pogacar ha perso il Tour quando – in un eccesso di sicurezza sulle Alpi – ha voluto rispondere a ogni attacco della Jumbo Visma, alle accelerazioni di Vingegaard e di Primoz Roglic. E prima di abdicare sulla salita verso Hautacam, lo sloveno ha cercato più volte – invano – di liberarsi dalla marcatura del danese. Sì, il ciclismo è più bello, e ritrova la sua essenza più eroica, quando i corridori mostrano un volto umano e vanno in crisi. Ce n’eravamo quasi dimenticati. Nei suoi sette Tour vinti consecutivamente, Lance Armstrong non mostrò nemmeno un flebile segnale di debolezza: oggi tutti sanno cosa c’era dietro la sua schiacciante superiorità.
Non si tratta qui di fare l’apologia del ciclismo, di scommettere che la bicicletta abbia definitivamente – e soprattutto per sempre – voltato pagina rispetto ai suoi tempi più bui. Ne ha fatte troppe per meritarsi una totale e incondizionata assoluzione. Ma le facce da bravi ragazzi di Vingegaard e Pogacar lasciano intravedere un futuro più pulito. Forse non immacolato, ma più pulito. La speranza è questa.