La rivincita del deserto

Per un uomo della mia generazione, nato dopo il disastro di Seveso (1976) e cresciuto dentro l’onda lunga di Chernobyl (1986), con impressa negli occhi l’immagine del cormorano imbevuto di petrolio che avrebbe dovuto simboleggiare – era un fake – tutti i mali di Saddam Hussein (1991), non credo di avere una particolare sensibilità ecologica. Se l’ho sviluppata un po’ negli anni, è stato semmai in reazione agli interventi “ecologici” della Città di Lugano, che il più delle volte hanno avuto l’esito di sostituire alberi ed erba con sabbia e sassi. Con fondate ragioni scientifiche e ambientali, mi si dice, e sarà anche vero. Però io ai parchi ci vado meno di prima, e così mi sembra che facciano anche altri. Il pianeta si riscalda ogni giorno che passa, eppure noi continuiamo a togliere quelle isole di fresco che ancora ci tutelano.
Non alludo tanto alla rinaturazione della Foce, il cui esito positivo è sotto gli occhi di tutti, compresi gli scettici della prima ora. Ammetto di essere stato tra questi, convinto che l’acqua dovesse scorrere al lago il più velocemente possibile per scongiurare inondazioni. C’è voluta una piccola battaglia elettorale e alla fine chi aveva avuto quella visione originale, conservativa nel senso buono del termine, ha vinto, e lo ha fatto per il bene di tutti. I turisti sicuramente ringraziano, soprattutto quelli che atterrano in infradito, salvietta e costume da bagno fin sulle soglie di piazza della Riforma.
Sullo slancio di quell’intervento riuscito, abbiamo assistito in seguito a riqualificazioni assai meno felici. Per restare nella zona in cui vivo, tra Viganello e Cassarate, la scomparsa del verde – inteso proprio come il colore dell’erba – ha toccato il parco giochi di via Pico, trasformato senza reali necessità in un afoso bootcamp di massi, terra battuta e reti metalliche («Era più bello prima!» è stato il commento delle mie bambine, cresciute tra quelle piante). La nube di sabbia ha investito poi il giardino della Lanchetta, divenuto un’improbabile spiaggia senz’alberi affacciata su un Ceresio che si vorrebbe Mediterraneo, ma che Ceresio rimane, con l’aggravante di una riva del lago largamente inaccessibile al grande pubblico (da cui queste operazioni di restyling che possono soltanto fingere spontaneità e disponibilità per tutti del patrimonio ambientale).
Fin qui, potrebbero essere le lamentele di un comune cittadino confrontato con la generale scomparsa dell’ombra e l’aumento sconsiderato delle dune. Ciò che mi ha fatto saltare la mosca al naso sono state però le motivazioni con cui si è cercato di indorare la pillola: «Un tempo» recita infatti l’account Instagram dell’amministrazione comunale «la Lanchetta era il punto di approdo delle chiatte che portavano i sassi di Caprino, usati per costruire i muri della città. Con la riqualifica, questa identità è stata valorizzata: sabbia, ghiaia e forme naturali riprendono il paesaggio di un tempo». Sarei tentato di chiedere un commento a caldo (dato il clima) a un amico docente di comunicazione all’USI. Ho il sospetto comunque che il termine tecnico sia “paraculata su basi storiche”, per giunta selettive. Per fortuna nessuno deve avere detto loro che alla Lanchetta, ancora fino a tutto l’Ottocento, non c’erano altro che ciminiere, filande, puzzolentissime concerie e discariche di materiali vari. Sai mai che volessero prendere ispirazione anche da quelle. Non desta sorpresa che la zona tra Viganello e il lago sia stata l’ultima a venire urbanizzata, nonostante la presenza di una riva: la “Lanchetta” – termine che etimologicamente richiama le pozze e i liquami stagnanti – era infatti il quartiere malsano per eccellenza. Piano piano, grazie alla dislocazione delle industrie e alla presenza virtuosa del Villa Castagnola, Cassarate iniziò a prendere la forma, verde e alberata, che abbiamo avuto sotto gli occhi fino a oggi. Fino al ritorno del deserto.