Il commento

La voglia di essere spaventati

Qualcuno ha detto che i gialli sono un genere letterario minore: probabilmente non ha mai letto Scerbanenco
Carlo Silini
14.05.2022 06:00

Qualcuno ha detto che i gialli sono un genere letterario minore. Probabilmente non ha mai letto Scerbanenco (lo cito non per l’origine ucraina, ma per l‘eccezionale bravura) né moltissimi altri autori che hanno nobilitato l’arte dello scrivere immergendosi in punta di penna tra crimini e violenza. Certo che non basta mettere insieme un bravo commissario e uno o più cadaveri per ottenere un capolavoro giallo. Ci vuole intelligenza, humor, senso del ritmo, della vertigine, capacità di entrare nella psiche di vittime e assassini, di cogliere le sfumature del loro mondo interiore e al contempo della società e dell’ambiente nei quali si dipana la vicenda. Per quanto ci riguarda, quindi, non esistono generi minori, ma libri di qualsiasi genere scritti bene o scritti male. Tutto lì.

È un fatto, però, che il «giallo» attira più di qualsiasi altro tipo di romanzo. Ed è forse per la capacità di sedurre folle di scrittori (all’ultima edizione del concorso letterario Ceresio in Giallo, per dire, hanno partecipato ben 412 autori!) e di lettori, per questa sua smaccata popolarità, che qualche critico letterario lo ritiene troppo volgare per i salotti della «vera» letteratura. Troppo semplice e brutale per stuzzicare le menti raffinate, a volte labirintiche, dei sapienti.

Noi grezzi mortali leggiamo thriller scandinavi prima di spegnere l’abatjour e beviamo la birretta davanti a serie tv che tra la prima e l’ultima puntata dimezzano il numero degli attori perché il copione li fa morire per ragioni niente affatto naturali. La domanda vera è: perché? Perché ci piace, anzi, ci diverte così tanto la narrazione della paura, della morte e del crimine? Come mai la metà dei prodotti editoriali scritti e audiovisivi parla di gente che ammazza o viene ammazzata? Vuoi vedere che, dietro i nostri sorrisi rassicuranti, le nostre vite ordinarie, disciplinate e quasi per nulla trasgressive, siamo tutti psicopatici?

A pensarci c’è da rompersi la testa. Ma come, non ci è bastata la pandemia col suo seguito di carri funebri? Non ci basta la guerra in Ucraina e le sue fosse comuni? Possibile che in un momento del genere invece di dedicarci all’amore, alla felicità e ai percorsi introspettivi zen, ci tuffiamo con voluttà in Chi l’ha visto o nelle ricostruzioni allucinanti di Franca Leosini, la giornalista che racconta con dovizia di orrorifici particolari storie storte di crimini efferati? Possibile che, perfino nella fiction – cioè nel mondo dove possiamo liberamente evadere dalle asperità della vita - non troviamo nulla di meglio che ubriacarci di trame angoscianti sui serial killer della porta, del bosco o dello scantinato accanto?

Lasciamo volentieri agli psichiatri l’impresa di rispondere con perizia e saggezza. Per quanto ci riguarda auspichiamo che oltre alla nostra dose quotidiana di gente morta male, assimilata via teleschermo, cominciamo a nutrirci anche di racconti più pacati e pacificanti, magari storie di bontà, di consapevolezza e di generosità, giusto per bilanciare almeno un po’ gli apporti narrativi «noir» che vanno decisamente per la maggiore. Lo diciamo pur sapendo che in letteratura e in filmografia, per uno strano incantesimo, «bello» è «brutto» e viceversa. Nutriamo il fondato sospetto che in un qualche modo abbiamo bisogno di questo rovesciamento logico e che la passione per le storie di terrore sia il sentiero di fuga dalle nostre paure inespresse. Come quando da bambini ci sedevamo sul letto e imploravamo un adulto che ci voleva bene di spaventarci con una favola horror tipo Hänsel e Gretel o Cappuccetto rosso, col lupo travestito da nonna sotto le coperte (che angoscia!). Poi il bacio della buona notte e tutto passava.