L'anno di mezzo

Questo 2025 sarà, per la politica nostra, «l’anno di mezzo»: ovvero quello in cui si naviga abbastanza tranquilli in attesa dell’anno delle decisioni elettorali tattiche: i giochi si faranno nel 2026 (si voterà a inizio 2027). Ma sarà in questo 2025 che avverranno le grandi manovre sotterranee. Allora vediamo un po’. Governo fotocopia o viavai? Posto che si giochi ancora in Consiglio di Stato con il modulo 2-1-1-1 (chissà) che faranno i ministri in carica? Raffaele De Rosa, del Centro, resterà lì, ha operato giudiziosamente senza clamore o troppa esposizione, vuole fare quantomeno i suoi dodici anni. Nel suo partito i nuovi nomi dovranno per ora allenarsi dietro le quinte per il 2031 (magari una prima donna del Centro in Governo per quella scadenza?). Resterà al suo posto anche Marina Carobbio, appena arrivata: fu la candidata giusta della sinistra nel 2023, lo sarà anche nel 2027. E i ministri leghisti che faranno? Claudio Zali, non si sa ancora bene. Nel 2027 avrà 64 anni, forse non si ripresenterà. Ha il suo curriculum pubblico di tutto rispetto, è stato un ministro più d’azione concreta che di parole in libera uscita. Potrebbe, sull’orlo dell’età AVS, lasciare, con la coscienza a posto. Oppure la Lega gli chiederà di rimanere per cercare di sventare l’assalto degli «amici» dell’UDC? Invece Norman Gobbi ha dichiarato di essere a disposizione per un ulteriore mandato. È vero che nel 2027 sarà in Governo da sedici anni, ma è anche vero che sarà ancora giovane, 50 anni. Se smettesse cosa potrebbe fare, politicamente, da grande? Su Berna non ha finestre aperte (gli Stati sono presidiati a destra da Marco Chiesa e al Nazionale i posti sono occupati). Gobbi dunque potrebbe puntare ai vent’anni di presenza in Governo (battendo il record di Marco Borradori, che si era fermato a 19). Elettoralmente Gobbi è forte, anche se la sua corsa potrebbe essere un po’ rallentata da qualche ammaccatura di percorso e dalla lunghezza della presenza (ma quella volpe di Andreotti sosteneva che «il potere logora chi non ce l’ha», e Gobbi il potere ce l’ha). La Lega stessa vorrà che Gobbi si ripresenti, perché l’UDC vuole ritentare il colpo di occupare un seggio della destra (lo farà con Piero Marchesi, con Paolo Pamini? Con Chiesa (posto che lui voglia rinunciare a tentare di fare il sindaco di Lugano, una corsa per lui partita forse troppo presto)?
Saranno, questi, problemi interni per i fratelli-coltelli dell’alleanza Lega-UDC. Veniamo ai liberali. Christian Vitta i suoi dodici anni li ha fatti, usando la sua competenza finanzaria e la sua vocazione all’autorevolezza mediatrice. Un buon bilancio. Forse si ripresenterà, anche se sa bene che nel suo partito covano appetiti. D’altro canto, se smettesse, cosa potrebbe fare, in politica? Gli rimarrebbe solo un calcolo rischioso: lasciare il governo, sperando che o Alex Farinelli o Simone Gianini (che stanno lavorando bene) gli succedano e lascino il loro seggio bernese alla corsa di Vitta. Però poi per il Governo scalpiterebbero anche altri, come per esempio la capogruppo in Parlamento Alessandra Gianella, che ha accumulato grande esperienza. Son nomi, questi, che se non scenderanno in campo nel 2027 lo faranno nel 2031. Vitta potrebbe anche essere l’unico profilo liberale in grado di riacciuffare il seggio storico liberale al Consiglio degli Stati. Ma sarebbe una corsa in salita, contro quei due robusti «alleati» ticinesi di destra in Senato. Meglio l’uovo di oggi in governo che la dubbiosa gallina di domani agli Stati. Quindi Vitta, con la signorilità che gli appartiene, dirà che sì, lui sarebbe a disposizione per un nuovo mandato. E il partito non potrebbe mica dirgli di no, vero? E allora, forse, davvero avremo un Governo fotocopia, a parte l’ipotesi della partenza di Zali, peraltro non ancora annunciata. E allora io penso (e qui dai nomi passo a una valutazione politica) che la vera rivoluzione generazionale ma anche di sostanza politica sarà soltanto nel 2031. Sarà allora che il confronto interno alla destra (UDC e Lega) dirà chi infine ha vinto e chi ha perso; sarà solo allora che liberali e centristi ex-PPD avranno forse capito che federarsi in qualche modo e aiutarsi nell’area liberal-moderata di centro non è un peccato ideologico ma una opportunità politica. Sarà solo nel 2031 che la sinistra saprà se il vento che oggi la sta frenando un po’ ovunque sarà cambiato, per intanto la classe operaia vota piuttosto a destra: colpa soltanto del «popolo populista» o anche un po’ della sinistra che deve cercare visioni e grammatica nuove? Sarà nel 2031 che sapremo davvero se la corrosione di sfiducia rappresentata dalla diserzione alle urne sarà un po’ bonificata da un rilancio di vera democrazia. E da una nuova immaginazione politica che colga le mutazioni della contemporaneità fuori da ideologismi, populismi ed egoismi.