L'eredità letteraria di un massacro

di MATTEO AIRAGHI - "All'undicesima ora, dell'undicesimo giorno, dell'undicesimo mese". L'approssimarsi del centenario della fine della Prima guerra mondiale (che si fa coincidere a livello internazionale con la firma dell'armistizio di Compiègne con cui l'11 novembre 1918 l'Impero Germanico si arrendeva definitivamente alle potenze alleate) induce ad alcune riflessioni che vanno al di là degli aspetti commemorativi o delle analisi storico-militari. La Grande Guerra rappresentò infatti una frattura profonda nella storia del mondo contemporaneo. L'epoca che si era aperta con l'illuminismo, la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, caratterizzata dalla fiducia nel progresso economico e civile, nella scienza, nella ragione individuale e collettiva, trovò in essa la sua drammatica conclusione. Al tempo stesso, la guerra produsse trasformazioni profonde nell'economia, nella politica, nella società, imponendo la faticosa ricerca di nuovi equilibri. E anche la Cultura, tutta, non fu mai più la stessa. Gli intellettuali si mobilitarono (in grande maggioranza, ricordiamolo, a favore della guerra) in massa con uno slancio senza precedenti e forse anche per questo l'impatto con un orrore indicibile di quella portata produsse una reazione unica nella storia dell'umanità. Un orrore che prima del 1914 nessuno aveva neppure potuto immaginare e che dopo quattro anni di disillusioni e di milioni di caduti produsse una rivoluzione culturale pressoché totale. Non esiste infatti ambito culturale in cui l'impatto del primo conflitto mondiale non abbia prodotto delle trasformazioni radicali: l'arte, il teatro, il cinema, la musica e soprattutto la letteratura abbandonarono per sempre il sogno borghese e post industriale di fine Ottocento per raccontare un mondo nuovo e la sua disillusione. E se la definitiva presa di coscienza da parte degli intellettuali di quanto poco di romantico ci fosse in un conflitto moderno non impedì all'umanità di ricadere presto nei medesimi abomini è chiaro che il primo conflitto mondiale vide un autentico trionfo della scrittura e che l'eredità letteraria di quel indicibile carnaio rimane una delle più limpide lezioni che la letteratura abbia prodotto in ogni tempo. La Grande Guerra vide proprio la scrittura come lo strumento più utilizzato dai soldati di ogni provenienza sociale e culturale: accanto agli intellettuali, un'intera generazione di semplici contadini e di operai aveva imparato nelle trincee a leggere e a scrivere anche perché la lettera era l'unico canale di comunicazione possibile insieme ai bollettini diramati ogni giorno dai comandi militari. La figura del soldato-scrittore da questo momento rimane scolpita nella memoria collettiva occidentale ed è la necessità di conservare la memoria dell'orrore, insieme alla volontà di condividere con chi non c'era un vissuto tanto gravoso, la scintilla che alimenta le innumerevoli opere letterarie che rimangono tra le più alte testimonianze di ciò che avvenne un secolo fa: libri che restituiscono non solo il senso di una tragedia immane ma anche la coralità della guerra e lo smarrimento dell'individuo di fronte alla follia della violenza umana "istituzionalizzata" su scala industriale. Così se si vuole trovare una chiave di interpretazione per quegli eventi, ormai lontani un secolo ma tanto importanti per comprendere il mondo come oggi lo conosciamo, lo strumento principe in questo caso non può che essere la grande letteratura e non, si badi bene, la grande letteratura "di guerra" o la memorialistica che ogni conflitto ha prodotto nella lunga e tormentata vicenda umana: la grande letteratura tout court. E potremmo fare decine, forse centinaia di esempi superbi, in fondo per dirne una anche "Il grande Gatsby" è un fante sopravvissuto al fango delle trincee d'Europa, ma con una scelta del tutto arbitraria ci limitiamo a ricordare quattro romanzi, di quattro diverse aree culturali, che da soli descrivono alla perfezione ciò che accadde e la trasformazione che durante quegli eventi si produsse nelle menti e nei cuori di quegli uomini. A cominciare dai dubbi sul ruolo assurdo degli intellettuali del "Viaggio al termine della notte" di Louis-Ferdinand Celine per passare al rifiuto della guerra del protagonista di "Addio alle armi" di Ernest Hemingway, consigliando vivamente uno dei massimi best-seller del Novecento come "Niente di nuovo sul fronte occidentale" del ticinese d'adozione Erich Maria Remarque, fino al capolavoro imprescindibile di Emilio Lussu, scritto tra l'altro in terra grigionese alla fine degli anni Trenta, "Un anno sull'Altipiano". Proprio a lui, fervente interventista e valoroso combattente più volte decorato, e al suo romanzo dobbiamo una delle sentenze più limpide sull'esperienza bellica che siano mai state scritte: "Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa".