Editoriale

L’incoerenza attorno al canone SSR

Alcune contraddizioni politiche, sociali e culturali che l’iniziativa «200 franchi bastano!» porta dentro di sé stanno emergendo lampanti
Paride Pelli
06.02.2024 06:00

Per inquadrare meglio la discussione che si scatenerà da qui al 2026, quando si andrà a votare sull’iniziativa «200 franchi bastano!», occorre mettere da parte per un momento il contenuto specifico della proposta. Alcune contraddizioni politiche, sociali e culturali che l’iniziativa porta dentro di sé stanno già emergendo lampanti. Pochi giorni fa, ad esempio, il Consiglio di Stato ticinese, in risposta a una consultazione, ha espresso chiaramente la sua posizione, respingendo (secondo logica, ci mancherebbe) la riduzione del canone SSR a 200 franchi proposta dagli iniziativisti, ma pure – più a sorpresa – la soluzione intermedia avanzata dal Consiglio federale, con una meno dolorosa discesa a 300 franchi. Un ferreo «no» su tutta la linea, probabilmente provvisorio, dal momento che la strada è ancora lunga e le posizioni verranno riviste più volte per evitare un muro contro muro dalle conseguenze imprevedibili e comunque ben poco elvetico. Di fatto, il Consiglio di Stato è preoccupato per la probabile soppressione, nel caso passasse la proposta di un canone a 300 franchi, di almeno 150 posti di lavoro alla RSI e per un eventuale, e tutto da definire, calo dell’indotto, di cui risentirebbero il settore degli appalti esterni e quello degli eventi e dei servizi culturali. Al di là del punto di applicazione dei tagli, la perdita per la RSI (a partire dal 2029) si assesterebbe intorno ai 40-50 milioni di franchi annui. Se invece venisse approvata l’iniziativa a 200 franchi, lo scenario sarebbe ben più drammatico, o comunque pieno di incognite. È degno di nota, a tal proposito, che anche coloro che hanno lanciato l’iniziativa (l’UDC a livello nazionale) e coloro che hanno contribuito in modo rilevante a raccogliere le firme a livello cantonale stiano iniziando a dare segnali quantomeno di indecisione, se non di incoerenza. Il Dipartimento federale delle comunicazioni, diretto da Albert Rösti (UDC), ha la grana maggiore, avendo ricevuto dal Consiglio federale l’incarico di «sgonfiare» l’iniziativa promossa, paradossalmente, proprio dal suo stesso partito.

In Ticino, invece, è la Lega a non sapere ancora se a questo giro sia meglio recitare la parte di lotta o quella di governo. Sulla carta, il Consiglio di Stato è a maggioranza relativa leghista e pochi giorni fa, appunto, ha avallato una posizione collegiale contro l’iniziativa e contro la proposta dei 300 franchi, nonostante alcuni membri si fossero espressi nel recente passato a favore di un consistente taglio del canone. La parte «barricadera» della Lega (sulle colonne del Mattino) ha subito accusato il «governicchio» (a maggioranza relativa leghista, occorre ribadirlo) di fare il gioco della RSI e che era invece il momento giusto di agire contro il canone più alto d’Europa.

La realtà è che democrazia, federalismo e rispetto delle minoranze sono stati finora assicurati, quantomeno in Svizzera, dai media e dal servizio informativo, sia esso pubblico o privato. Questo è il vero nodo politico e culturale dell’iniziativa, al di là dei «posti di lavoro» che, sia detto con tutto il rispetto, verranno strattonati nel dibattito politico da una parte o dall’altra dai partiti, dai sindacati e dalle associazioni. Si percepisce, inoltre, soprattutto nella linea del Consiglio di Stato, una certa autoreferenzialità del settore pubblico verso sé stesso. Ricordiamo che nell’iniziativa e nelle varie controproposte o controprogetti che l’accompagneranno sono coinvolti anche i media privati, che non hanno le sicurezze e le garanzie del pubblico e che pure ogni giorno - pensiamo solo ai giornali o alle emittenti private - producono tra mille difficoltà un servizio informativo competitivo ed essenziale alla cultura democratica. Per alcuni di questi media sono già previsti, a tendere, minori sussidi, mentre per ciò che riguarda la stampa scritta la Posta sta, come noto, valutando di assestare ulteriori mazzate (oltre alle tariffe esose della distribuzione, l’eventuale mancanza della consegna giornaliera metterebbe i quotidiani in ginocchio in pochissimi mesi).

Ça va sans dire che la questione è più grande di quanto traspare, per ora, dal dibattito politico. Se il servizio pubblico dovrà dimostrare di saper fare autocritica in un confronto che sarà senza esclusione di colpi, anche la politica, al di là degli interessi immediati dei partiti, dovrà fare uno scatto in avanti e proporre un allineamento complessivo che tenga conto della realtà ticinese ed elvetica nel suo complesso, della storia che abbiamo alle spalle e di quella che vogliamo avere in futuro. Che non è solo quella della SSR.