Commento

L’industria impossibile degli USA di Trump

Tra i molti errori presenti nella linea del presidente c’è anche quello del voler attuare una sorta di reindustrializzazione forzata degli Stati Uniti
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
19.04.2025 06:00

Tra i molti errori presenti nella linea di Trump c’è anche quello del voler attuare una sorta di reindustrializzazione forzata degli USA. La realtà nel corso dei decenni è cambiata, per gli Stati Uniti come per tutte le economie avanzate. Il quadro che si è creato rende impossibile il ritorno a formati industriali che hanno caratterizzato la realtà economica e sociale sino a mezzo secolo fa e che oggi non sono replicabili. Gli USA restano un Paese con un’industria rilevante, ma né loro né altri Paesi avanzati possono far girare al contrario la ruota del tempo. Il punto è che l’industria, pur avendo sempre un ruolo importante, è cambiata ed ha una presenza all’interno di molte economie molto diversa rispetto ad altre epoche.

I dazi sono sbagliati perché frenano i commerci e pongono il rischio concreto di recessione, spingendo nel contempo l’inflazione. Ma sono un errore anche sul versante di una pretesa reindustrializzazione nazionale. Negli USA quasi l’80% dell’occupazione è nel vasto comparto dei servizi, meno del 2% è nell’agricoltura e meno del 20% è nell’industria (includendo il settore delle costruzioni, la manifattura in senso stretto non arriva a questa quota). Da notare che il trend della disoccupazione negli USA è attorno al 4%, livello basso per gli standard americani, il che indica come la forza lavoro in uscita da un’industria tenda in genere ad essere assorbita da altre industrie o, appunto, dalla galassia dei servizi. Perché dunque tentare di stravolgere il meccanismo, rischiando perdite economiche e comunque un insuccesso finale?

Si può cercare di ampliare solo limitatamente la quota del comparto industriale, risulta davvero difficile pensare che sia possibile un capovolgimento della situazione. E probabilmente non sarebbe neppure auspicabile questo ribaltone, considerando che l’allargarsi dell’economia dei servizi è una caratteristica dei Paesi avanzati e che questi, con gli USA in prima fila, hanno tratto nel complesso molti vantaggi dal nuovo quadro. Gli Stati Uniti appunto non sono soli nel cambiamento. Alcuni esempi, con i dati di Statista. Il Regno Unito è in una situazione quasi identica a quella degli USA, con oltre l’80% dell’occupazione nei servizi e il 18% nell’industria. La Svizzera è rispettivamente al 77% e al 20%. La media dell’Unione europea è attorno al 75% e un po’ sopra il 20% rispettivamente. Tutto ciò non significa che l’industria non resti un ramo di rilievo, ma indica che la composizione delle attività economiche è mutata in profondità nell’arco dei decenni. Per trovare ripartizioni molto differenti bisogna andare nei Paesi emergenti. La Cina, che è di gran lunga la maggiore tra le economie catalogate come emergenti, ha meno del 50% dell’occupazione nei servizi, attorno al 30% nell’industria e oltre il 20% nell’agricoltura. Pur con tutta la forza economica della Cina, si tratta di un assetto ben diverso.

I bisogni di servizi sono cresciuti ovunque, ma soprattutto nelle economie avanzate. Basti pensare tra gli altri a informatica, telecomunicazioni, commercio online, trasporti, energia. Nell’industria la produttività in media è salita, anche grazie alle innovazioni tecnologiche, e alcune produzioni si sono sviluppate al di fuori dei Paesi avanzati. Se è vero che occorre sempre vigilare sui diritti e sulle condizioni di lavoro sia nei nostri Paesi sia in quelli lontani, è anche vero che questo cambiamento epocale ha avuto sin qui più vantaggi che svantaggi, sia per i Paesi avanzati sia per quelli emergenti. Cercare di tornare indietro, bloccando con i dazi lo sviluppo del libero scambio e attuando reindustrializzazioni forzate di stampo nazionalista, è una gigantesca autorete. Un’attuazione integrale della linea del presidente USA Trump produrrebbe turbolenze forti e inutili, con passi indietro strada facendo per tutte le economie. E quindi anche, paradossalmente ma non troppo, per la stessa economia americana.

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