L’invisibile mondo dei giovani vecchi

Di certi ragazzi che sommano nella loro persona le caratteristiche mentali degli adulti a quelle fisiche degli adolescenti - teste piene di gravi pensieri su corpi acerbi da bambini allungati - si dice che “sono troppo giovani per essere vecchi e troppo vecchi per essere giovani”. Una frase che fotografa perfettamente il senso di inadeguatezza che spesso si prova alla loro età. Ci siamo passati tutti, chi lasciando crescere un’ombra di peluria sotto il naso spacciandola per un paio di baffi e chi vestendosi come una pin-up troppo piatta per essere credibile. Povere e tenere strategie per mettere d’accordo sostanza e apparenza, l’aspetto ancora infantile con pulsioni, passioni e, soprattutto, la voglia di essere “grandi”. Poi, un bel giorno, la vita passa il guado: lui si ritrova baffi veri e lei curve autentiche. E l’esistenza entra nella fase successiva.


Eppure, in alcuni momenti storici, gli sviluppi naturali del corpo non bastano per sancire l’entrata nell’età adulta. La pandemia è uno di quei momenti. Anche se tendiamo a dirlo sottovoce perché l’agenda è occupata da problemi più urgenti, lo abbiamo visto nei mesi infausti dell’anno scorso, in cui la scuola è rimasta chiusa e l’insegnamento è avvenuto a distanza. Ci siamo resi conto che la presenza, la vicinanza spalla a spalla e il contatto fisico appartengono, né più né meno dell’insegnamento di tutte le materie e della tana sicura della propria famiglia, alle condizioni di base per uno sviluppo sano dei ragazzi. Se il virus è decisamente meno pericoloso per chi appartiene a quella fascia d’età, non possiamo far finta che l’impatto della pandemia sulle nuove generazioni sia un fatto marginale; che basti aspettare che passi e la vita, almeno per loro, tornerà a trionfare. Di recente, la Federazione svizzera degli psicologi e delle psicologhe (FSP) ha rivelato che il numero di persone con gravi disturbi depressivi è raddoppiato durante la seconda ondata e che ad essere particolarmente a rischio sono i giovani tra i 14 e i 24 anni e chi subisce perdite finanziarie.
Ma c’è anche chi, per non farsi mancare nulla, è sia giovane che economicamente precario. Sono i giovani che non studiano e non lavorano. Vengono definiti “neet” (Not in Education, Employment or Training), hanno un’età compresa tra i 15 e i 29 anni e sono un vero e proprio esercito silenzioso. Il fenomeno è attestato in tutta Europa. In Italia se ne contano 2 milioni, in Svizzera sono meno del 10% del totale. La loro caratteristica, spiegano i ricercatori, è la vita “sospesa”. Avendo smesso di studiare e non essendo entrati nel mercato del lavoro “non hanno la spinta giovanile, sono molto ragionevoli, ponderati, misurati, i loro percorsi sono fatti da debolezze personali, famigliari e contestuali che li hanno portati ad una fase di afasia”, come racconta il nostro collaboratore Fabrizio Floris nel CorrierePiù.


Finché il piano vaccinale non sarà concluso, gli anziani sono stati e restano le vittime immediate della situazione, ma a medio e lungo termine la gioventù rischia di diventare la bomba a orologeria della crisi. Il problema non è quindi, come sostengono alcuni, quello di vaccinare loro per primi e “lasciare andare” chi è già destinato a morire per ragioni anagrafiche o mediche. Non sarà solo il vaccino a farli stare bene. Il problema è questa bolla che congela le esistenze e non le lascia ancora sbocciare. Contenimento e vaccini sono saggi e inevitabili, restano l’unica via per raggiungere la terra promessa dell’immunità di gregge. Ma nel frattempo sosteniamo con tutti i mezzi possibili i troppi giovani che attendono sugli scogli delle limitazioni il momento liberatorio di buttarsi nel mare di una vita adulta e decontaminata.