Taca la bala

L'Italia e l'addio al ct fatto in casa

Il caos che si è creato attorno alla figura del selezionatore azzurro - dopo le dimissioni di Spalletti e il rifiuto di Ranieri - fa a pugni con il passato, quando le varie federazioni facevano crescere nel proprio interno i possibili futuri commissari tecnici
L'oramai ex ct azzurro Luciano Spalletti. ©AP/CLAUDIO GIOVANNINI
Tarcisio Bullo
Tarcisio Bullo
13.06.2025 06:00

Lo psicodramma calcistico azzurro a cui stiamo assistendo da ticinesi magari persino un po’ compiaciuti (poi però, chi più chi meno, quasi tutti siamo tifosi di qualche squadra italiana…) si presta a parecchie chiavi di lettura. La prima è legata alla parola allenatore, che quando entra in ballo una nazionale si trasforma in commissario tecnico. Vogliamo dirlo una volta per tutte che il ruolo di chi è a capo di una nazionale e quello di chi guida un club è differente? Il compito di un commissario tecnico oggi si apparenta molto con quello di un dirigente: deve amalgamare una squadra con elementi coi quali non ha il tempo per lavorare, dunque deve limitarsi a seguire il lavoro sul campo che altri fanno al posto suo e scegliere ciò che di meglio passano i campionati. Nel caso dell’Italia, Luciano Spalletti l’ha capito sulla propria pelle e nessuno venga a dire che stiamo parlando di uno sprovveduto.

Non saprei se la storia può insegnare qualcosa, ma c’è stato un tempo in cui varie federazioni facevano crescere nel proprio interno i possibili futuri selezionatori. Un paio di grandi allenatori dell’Italia, Enzo Bearzot e Azeglio Vicini (ma potremmo aggiungere anche Cesare Maldini), mollarono molto presto la panchina di un club per entrare a far parte del settore tecnico della Federcalcio e scalare le gerarchie fino a diventare commissari tecnici della nazionale maggiore. In Svizzera l’ultimo esempio in questo senso è probabilmente quello di Köbi Kuhn, che nessuno ricorda di aver visto su una panchina di un club (tranne una brevissima parentesi a Zurigo nell’83/84). Nel mondo del calcio-spettacolo di oggi, la strategia di far crescere all’interno del proprio settore tecnico un allenatore per poi promuoverlo fino alla prima squadra è tramontata: ci vogliono nomi importanti, capaci di sedurre le folle, ma che poi sovente vengono bruciati anche per la profonda trasformazione che ha vissuto il calcio.

Ci sono almeno due fattori su cui riflettere e che sono interdipendenti: da un lato questo voler infittire costantemente il calendario (fra pochi giorni assisteremo all’ultimo esempio, col Mondiale per club) toglie sicuramente spazio alle nazionali e impedisce lo sviluppo di una filosofia di gioco coerente e chiara; dall’altro sembra sempre più affermarsi il disincanto legato all’amore per ciò che una volta rappresentava il massimo onore a cui un calciatore aspirava, cioè vestire la maglia della nazionale. Se non si tratta di un Mondiale o di un Europeo, in nazionale ci si va malvolentieri e spesso svogliatamente, soprattutto se si tratta di affrontare delle amichevoli che hanno valore solo agli occhi del selezionatore. Troppi impegni, tanti rischi, tanta fatica e pochi soldi, verrebbe da dire. Ma allora, anche alla luce dell’introduzione del Mondiale per club, vogliamo finalmente decretare la morte dei tornei riservati alle nazionali? Il calcio spettacolo di oggi davvero soffrirebbe se eliminassimo le rappresentative dei vari paesi? E magari, nel caso, non daremmo una mano anche a limare nazionalismi esacerbati e deleteri?

Poi d’accordo, la crisi del calcio italiano supera gli argini del discorso commissario tecnico fatto in casa o meno, dei troppi impegni e del disinnamoramento dei calciatori. Quando nelle migliori squadre della Serie A se va bene trovi un paio di italiani tra chi scende in campo e chi va in panchina, il discorso è già chiuso. E, con tutto il rispetto, tentare di vendere l’acquisto di un quarantenne come un gran colpo di mercato – si chiami Modric oppure Dzeko – significa prendere il tifoso per i fondelli e minare alla base la fiducia dei giovani calciatori di poter avere un futuro da campioni.

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