L'ultima silenziosa stagione di Piero Ostellino

Piero Ostellino, già direttore del Corriere della Sera e firma del Corriere del Ticino.
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
12.03.2018 06:00

di FERRUCCIO DE BORTOLI - L'ultima silenziosa stagione di Piero Ostellino Piero Ostellino ci ha lasciato all'età di 82 anni. Ma negli ultimi tempi non parlava più. Era come se si fosse congedato anzitempo dalla vita rinunciando a scrivere e a comunicare con gli altri. Forse un modo per dimostrare il proprio distacco da un'attualità, soprattutto politica, della quale non sopportava più la pochezza ideale, l'inconsistenza culturale dei protagonisti, la melassa del politicamente corretto. Sabato scorso sono andato a rendergli l'ultimo omaggio. Ho faticato a riconoscerlo. «Ma Piero, sei tu?», avrei voluto dirgli. Ostellino è stato il mio direttore, tra 1984 e il 1987, editorialista principe per tanti anni prima che decidesse, con mio profondo dispiacere, di lasciare, nel 2015, il Corriere della Sera - un club al quale diceva sempre ci s'iscrive a vita - per Il Giornale. Quel distacco, dopo mezzo secolo in via Solferino, fu per me una sconfitta personale. Piero era la voce di un liberalismo puro, colto, refrattario ai compromessi e al buonismo. Era l'anima liberale di un giornale liberale. Un po' anarchico e insofferente (anche alla direzione). Un oppositore costante, un fustigatore deciso delle voglie stataliste di cui l'Italia è ancora oggi prigioniera e vittima.

Un polemista di vaglia, sempre originale nell'analisi e nel pensiero. Ma soprattutto geloso della propria indipendenza. Attento a scrollarsi di dosso etichette e appartenenze. Amava i bei vestiti, come la buona cucina e la Juventus, ma detestava i cori. I perdenti gli stavano più simpatici dei vincitori. I lettori del Corriere del Ticino hanno avuto modo di apprezzare le qualità dell'intellettuale e del giornalista. La piemontesità, mai risciacquata nel Naviglio (era nato però a Venezia), gli conferiva un tratto elegante, un'immagine quasi cavouriana, risorgimentale. Era, la sua, una gentile ruvidezza che dava sapore inconsueto al coraggio di andare controcorrente. Gli piacque il decisionismo riformista del socialista Craxi. Diede credito, salvo non nascondere qualche delusione, alla promessa di rivoluzione liberale di Berlusconi e lo difese, da buon garantista, dalle accuse che lo coinvolsero, sforzandosi di distinguere fra peccati e reati. Il moralismo della politica lo irritava.

E non di rado irrideva giustizialisti, neo-giacobini e moralisti. Forte di una preparazione culturale d'altri tempi - i suoi maestri erano stati, a Scienze politiche a Torino, Alessandro Passerin d'Entrèves e Norberto Bobbio – si sforzava nei suoi scritti e nei suoi libri, di esercitare una sorta di pedagogia liberale. Erano costanti i richiami al pensiero di Locke, Smith, Hume. Insisteva sul rispetto delle libertà personali (anche di sbagliare) e sui pericoli di uno stato etico che s'intromette e imbriglia le vite individuali riducendoli a numeri o ad aridi account. Lo Stato Canaglia (Rizzoli 2009) è stato un libro di successo che ha suscitato una coda di polemiche e discussioni. Ostellino è stato un celebre corrispondente del Corriere della Sera da Mosca e Pechino. A quella lunga esperienza all'estero aveva dedicato due libri (Vivere in Russia nel 1977 e Vivere in Cina nel 1981, entrambi editi da Rizzoli). Era anticomunista ma descrisse i due regimi con la freddezza del giornalista privo di pregiudizi che si attiene ai soli fatti. La fragilità dell'Unione Sovietica di Breznev venne intuita con un'analisi rigorosa dei sintomi d'implosione del sistema. E allo stesso modo, da corrispondente da Pechino nel dopo Mao, capì quale sarebbe stata la portata, rivoluzionaria, sul versante del capitalismo di Stato, delle riforme dell'epoca di Deng. Ostellino ha sognato a lungo un'Italia liberale, aperta alla concorrenza, sull'esempio della democrazia anglosassone. Aveva fondato il centro Einaudi, promosso la pubblicazione della Biblioteca della libertà, diretto l'Ispi, l'Istituto che studia le relazioni internazionali. Sperava che quella semina liberale desse più frutti di quelli che deve aver constatato con amarezza nell'ultima silenziosa e sofferente stagione della sua vita. Essere in minoranza non gli dispiaceva, sentirsi estraneo al suo Paese deve avergli procurato un dolore immenso.