Ma guarda che razza di parole

Giancarlo Dillena
Giancarlo Dillena
20.09.2017 06:00

di GIANCARLO DILLENA - Vi sono parole che pesano come macigni. E che, quando cerchiamo di liberarcene, ci ricadono addosso come la pietra di Sisifo.

È il caso di «razza». È oramai da tempo riconosciuto che il termine, applicato alle differenze che si riscontrano all'interno della specie umana, è privo di qualsiasi fondamento scientifico. La parola sarebbe dunque da bandire, quantomeno dai testi ufficiali. Ma così non è. Addirittura nella Costituzione svizzera (fra le altre) lo si cita esplicitamente, là dove, all'articolo 8, si afferma che «nessuno può essere discriminato, in particolare a causa dell'origine, della razza, del sesso, ecc.». Ma come: se la razza non esiste, perché evocarla (e quindi legittimare indirettamente il concetto) addirittura nella legge fondamentale del Paese?

Qualcuno potrebbe suggerire – seguendo una tendenza oggi molto in voga – di fare come si è fatto con «storpio» o «scemo», sostituiti prima da «portatore di handicap», poi da «disabile», infine da «diversamente abile». Un modo per esprimere non solo maggior riguardo nei confronti dei diretti interessati ma anche di sottolineare un approccio nuovo e più evoluto al problema. Perché non farlo anche con «razza»? Perché non dire «diversamente riconoscibile» o «di diverso colore»? Evidentemente perché la formula richiamerebbe a sua volta una visione – «normoriconoscibile» o «normocolorato» – di per sé discriminante e quindi indifendibile.

Si può ricorrere al concetto di etnia, che effettivamente alcuni considerano un sostituto adeguato e politicamente corretto di razza. Ma gli stessi antropologi sono divisi: per alcuni il richiamo etimologico al concetto di «nazione» è portatore di troppa ambiguità. Applicato a contesti diversi (di carattere morfologico, geografico, storico, religioso, linguistico e via di seguito) assume significati via via differenti. In effetti, se ci si riferisce alle persone di colore piuttosto che ai «bianchi», definirli come un'etnia è decisamente inadeguato. E poi c'è l'aspetto pratico: con questo tipo di sostituzione, pur politicamente corretta, rischieremmo facilmente di non capirci, rimandando ognuno a qualche cosa di diverso. Senza contare che l'uso di etnia imporrebbe di conseguenze altri nuovi termini, come etnismo o antietnismo, il cui significato sarebbe tutto da definire (il secondo suonerebbe addirittura opposto rispetto alle intenzioni, cioè come un atteggiamento discriminatorio nei confronti delle minoranze).

E qui, probabilmente, sta il nocciolo della questione. La quale, a dispetto delle dichiarazioni di principio, è essa stessa più sfumata ed ambigua. Se infatti abolissimo l'uso di razza, diventerebbe più difficile far capo a termini come razzismo o razzista, tanto correnti quanto utili per indicare, o meglio condannare, mentalità e atteggiamenti che, così descritti, suscitano una immediata repulsione, con conseguente adesione al fronte opposto. E dovremmo anche rinunciare, simmetricamente, a antirazzista, sostantivo e aggettivo così utili a chi li usa, per autocollocarsi dalla parte dei buoni.

È vero che razzismo ha un significato puntuale, se riferito a teorie e comportamenti che hanno tristemente segnato la storia recente. Le aree con cui confina – xenofobia e schiavismo (solo per citarne due) – in effetti non coprono adeguatamente questa visione, legata all'idea di superiorità di un gruppo (reale o immaginario) e quindi alla legittimità dello sfruttamento – quando non dello sterminio – di chi non vi appartiene. Ma la generalizzazione degli –ismo che ne derivano, diffusa nell'uso corrente, finisce paradossalmente col far rientrare dalla finestra quello che si vorrebbe espellere dalla porta, ribadendo di fatto un concetto – razza – che si vorrebbe inesistente. Si può replicare dicendo che il linguaggio è zeppo di parole riferite a cose che non esistono ma di cui si parla e quindi ad esse si ricorre, non fosse che per rifiutare il fondamento del concetto cui si riferiscono. Ma quanti di questi termini assurgono a dignità costituzionale, lasciando aleggiare un'idea surrettizia di sdoganamento?

In attesa che qualcuno trovi la soluzione dovremo continuare a convivere con questa contraddizione, come con altre. L'importante, dopo tutto, è la sostanza. Ma constatare certe ambiguità aiuta a evitare di cadere in rappresentazioni della realtà spesso altrettanto schematiche e sommarie di quelle che si vogliono condannare.

Il cammino della civiltà è costellato di insidie e trappole. La riflessione sulla lingua che le riflette può aiutarci a riconoscerle e, se non sempre ad evitarle, quanto meno a diventarne un po' meno vittime. Non per nulla si dice che la lingua batte proprio dove il dente duole.

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