Il commento

Ma perché tifi Fiorentina?

Abbiamo chiesto al nostro caporedattore Paolo Galli di introdurre la finale di Conference League tra i viola e il West Ham
Paolo Galli
07.06.2023 15:15

Tifare Fiorentina non è una cosa di cui vantarsi. O meglio, se nasci e cresci a Firenze, vabbè, si capisce: non è una colpa. Se nasci a Mendrisio e cresci a Chiasso è, quantomeno, un andarsele a cercare. Io tifo Fiorentina, e non me ne vanto. Ho sofferto, tanto. Uno dei primi ricordi che ho, in viola, è l’infortunio di Giancarlo Antognoni, il mio primo idolo. Era il 1981. Una tragedia sfiorata. Lui non sarebbe più stato lo stesso. Io già capii cosa mi avrebbe aspettato, anche se allora avevo quattro anni e tanta incoscienza. Ricordo poi la cessione di Roberto Baggio alla Juventus. All’epoca sfruttavo ogni lira che mi ritrovavo in tasca per comprare i giornali sportivi che parlavano di lui. Era tutto, Baggio, per me. Su un Lanciostory – o era l’Intrepido probabilmente – in copertina c’erano dei fotomontaggi. Dove andrà Roby? Baggio con la maglia della Juve, dell’Inter, del Milan. E la Fiorentina? Terra di passaggio, niente di più. Se ne andò dopo i Mondiali italiani. Poche settimane dopo la finale di Coppa UEFA persa proprio contro la Juventus.

Era la Fiorentina di Baggio, di Battistini capitano, di Dunga, dell’attuale vice di Allegri, Landucci, in porta. Era la Fiorentina di Nappi, quello dei palleggi di testa. Nippo Nappi. Tifare Fiorentina è tifare Nippo Nappi. Uno degli hashtag più ricorrenti, in territorio calcistico, è #maiunagioia. Be', ecco. Tifare Fiorentina è accontentarsi di gioie estemporanee, di qualche vittoria di prestigio, di qualche qualificazione, di una finale ogni tanto, ogni vent’anni, o trenta e oltre, come in questo caso. È sognare grazie a campioni veri. Ma è anche salutarli all’apice, o ancora prima, quando ancora si è nel territorio delle promesse. Gente che le manterrà altrove, o che fallirà. Sono appena passato dal barbiere. Lui dice che Vlahovic non le manterrà. Io credo di sì. Quel che è certo è che mi sarebbe piaciuto vederlo in campo stasera contro il West Ham.

Sono teso, a poche ore dalla partita, da un’altra finale, che si presenta pochi giorni dopo quella già persa contro l’Inter, in Coppa Italia. Questa è la Conference League. Mi accontenterei. Soffrirò, in tutti i casi, come ho sofferto per la semifinale. Tifare Fiorentina è avere un cuore forte, capace di andare oltre il risultato sul lungo periodo. È avere come miti gente come Celeste Pin e Alberto Di Chiara. È leggere la Gazzetta e cercare, in media, oltre pagina trenta. È lamentarsi. È sbuffare. È spegnere la tv arrabbiati, spesso delusi. È dire alla moglie: ecco, lo sapevo. È mancare invece proprio quella partita che, per chissà quale motivo, poi vinci. È chiamare la propria figlia Viola. E non, come dice in giro la mamma, per La dodicesima notte di Shakespeare. È comprare anche a lei una maglietta, originale naturalmente, con tanto di nome. È un’eredità che non si spiega e che non si capisce. È un tratto che caratterizza e che credo dica molto di ciò che si è. Della serie: originale ma in fondo un po’ scemo. È arrivare il giorno della finale, di Conference League, sì, e sentirla in pancia. È dire, a Viola: stasera la guardiamo assieme. Hamburger e partita. Lei crollerà prima del fischio iniziale, stanca dalle corse all’asilo e a ginnastica. È guardarla e comunque, chissà perché, essere fieri di vederla vestita di viola. È ricordarsi di quell’età e di quella incoscienza. Quella che ti aveva spinto a tifare Fiorentina, a essere, al di là di ogni risultato, felice.

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