Il commento

Matt Dillon e quel pezzo di strada assieme

Ritratto personale del primo Dillon, quello con la faccia giovane e ruvida da sbandato di periferia – Il mio primo eroe cinematografico
Paolo Galli
04.08.2022 10:30

 Matt Dillon è stato il mio primo eroe cinematografico. Erano gli anni Ottanta. Per imitare mio fratello maggiore giravo per casa con un’agendina nera, tascabile, e mi segnavo le battute che più mi colpivano dei film che vedevo. La prima citazione? Questa: «Se vuoi guidare la gente, devi avere dove andare». Era una battuta di «Quello della moto», Motorcycle Boy, ovvero Mickey Rourke. In quel film, Rumble Fish, in italiano Rusty il selvaggio, era il fratello maggiore di Rusty James, il personaggio di Matt Dillon. Mi immedesimai in Rusty James, un piccolo sbandato di periferia, dedito alle scazzottate e agli innamoramenti (Diane Lane!), ancora incerto, un cucciolo di teppista, dall’animo tenero. Motorcycle Boy era un’altra cosa, aveva già girato il mondo, aveva paura di nulla.

Un «film minore» di Coppola, come I ragazzi della 56esima strada, suo gemello, stessa autrice. Così viene ancora oggi descritto dai più: un suo film minore. Boh. Per me poco importava e poco importa, è stato uno dei miei film di formazione. Avevo otto o nove anni. E il mondo tutto da scoprire.

Matt Dillon aveva quella faccia, ruvida, sporca, zigomata. Da ragazzo, e poi ancora oltre, recitò spesso quello stereotipo, l’irrequieto, il ribelle. Era più convincente così che non da belloccio, meglio in Tex che non in Flamingo Kid. Non è un caso che i suoi lavori migliori dell’epoca portino tutti la firma di S. E. Hinton, sottovalutata scrittrice degli anni Settanta. I ragazzi della 56esima strada, Rusty, Tex. Romanzi, poi film, che descrivevano una realtà adolescenziale periferica alla James Dean, quindi non particolarmente evoluta rispetto agli anni Cinquanta. Il giovane Matt Dillon giocava a quella roba lì, un Gioventù bruciata trent’anni dopo. In un’America che stava per esplodere nei favolosi Ottanta, ma che ancora faceva i conti – e continua a farli – con quella sua natura da eterno Far West.

Matt Dillon poi, per un tratto di vita, è cresciuto con me. Continuava a fare Matt Dillon. E io lo seguivo da lontano, con qualche anno di ritardo. Arrivò Gus Van Sant, Drugstore Cowboy. Gli Ottanta non erano finiti, ma già si facevano più complessi, ripulendosi da qualche illusione. Dillon si diede alle commedie, dal peggior film dello stesso Van Sant, Da morire, a Tutti pazzi per Mary. Tutti pazzi per Mary venne proiettato in anteprima a Locarno, proprio al Festival, in una serata hollywoodiana come non ce ne sono forse più state, abbinato a Small Soldiers, di Joe Dante. La piazza Grande era al solito pienissima. Era il 1998.

Matt Dillon ha fatto altre cose. Ma nel frattempo ha smesso di essere un eroe. Mica per colpa sua. È che poi, appunto, si cresce. Si strappano i poster dei calciatori dalle pareti, si inizia a intuire che i cantanti non cantano solo per te, e dietro ai personaggi si scorgono gli attori che li interpretano. Vale anche per Matt Dillon. È stato il mio eroe. Quella citazione, di Motorcycle Boy, era per lui e per me e per tutti quelli di quella generazione. «Se vuoi guidare la gente, devi avere dove andare». Suona bene anche oggi, che ragazzo, da un pezzo, non sono più.

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