L'editoriale

Negli USA si riparla di lavoro sindacato

La questione della perdita del potere d'acquisto e del recupero del potere contrattuale è di nuovo al centro del dibattito pubblico
Generoso Chiaradonna
06.10.2023 06:00

Noi «vogliamo progredire insieme alla comunità e non a spese della comunità» e «il sindacato non si batte per una fetta più grande della torta nazionale ma per una torta più grande». Sono le parole di Walter Reuther, uno storico sindacalista della UAW, l’United Automobile Workers e c’è un intero programma politico in questa frase. Reuther fu attivo negli anni ’30 del secolo scorso e fu un convinto sostenitore del New Deal statunitense voluto dal presidente Frank Delano Roosevelt. Quel programma permise un notevole progresso economico e sociale tanto da caratterizzare il cosiddetto «capitalismo democratico» di quegli anni negli Stati Uniti.

Nelle settimane scorse la sigla dell’UAW è ritornata di attualità con lo sciopero a oltranza proclamato in alcuni stabilimenti di tre costruttori simboli del Made in USA e dell’operaismo americano: Ford, General Motors e Stellantis (ex Chrysler). Le richieste sindacali sono sbalorditive, se lette con gli occhi europei. Riassumendo, i metalmeccanici statunitensi stanno scioperando non solo per il rinnovo del loro contratto collettivo di lavoro, ma per la rinegoziazione globale e al rialzo delle condizioni contrattuali. Infatti, oltre a chiedere principalmente sostanziali aumenti di stipendio (del 40% sull’arco di 5 anni) per recuperare un potere di acquisto indebolito da un’inflazione elevata ormai da più di due anni, chiedono anche una riduzione – a parità di salario – dell’orario di lavoro. La controparte è pronta a scendere a patti sulla prima richiesta adeguando i salari del 20%.

Ma il malessere del mondo del lavoro statunitense non è solo degli operai. È emerso mesi prima tra gli sceneggiatori di Hollywood – ora addirittura gli attori stanno incrociando le braccia – e si è diffuso anche al mondo dell’assistenza sanitaria. Le richieste sono le medesime: più tempo per sé e più salario.

Da anni si discute, anche da questa parte dell’Atlantico, dell’introduzione della settimana lavorativa breve, di quattro giorni. Tranne l’esperienza di un paio di decenni fa delle famose 35 ore settimanali della Francia, comunque derogabili e prolungabili fino a 48 ore la settimana, non ci sono molti esempi di questo tipo. Immediatamente dopo la pandemia di coronavirus, l’uso massiccio del telelavoro negli ambiti in cui era praticabile, ovviamente, aveva fatto intendere che qualcosa di simile fosse a portata di mano senza grandi sforzi né sindacali, né legali. In realtà il lavoro da casa senza regole e senza un quadro giuridico certo crea solo l’illusione nel lavoratore di riappropriarsi del proprio tempo. In realtà la produttività in questa modalità – molto elevata durante la pandemia – tende a scemare in periodi non d’emergenza. In ogni caso, il presunto alleggerimento della settimana lavorativa grazie allo smart working riguarderebbe solo i classici colletti bianchi e non le tute blu, se si usa una terminologia da anni ’60 per indicare impiegati e operai.

L’orario di lavoro degli stabilimenti industriali occidentali è di fatto aumentato negli ultimi anni. Inoltre, l’avvento sulla scena globale nei decenni scorsi dei produttori delle economie emergenti – Cina e Sud Est asiatico su tutti – ha spinto le economie mature, per recuperare produttività, ad adeguarsi a logiche che si credevano superate: diminuzione delle tutele contrattuali, aumento della flessibilità, delocalizzazioni prima delle produzioni cosiddette a basso valore aggiunto e poi di interi comparti industriali.

Ora negli Stati Uniti, al di là delle strumentalizzazioni politiche inevitabili visto che gli scioperanti sono tirati per la giacchetta nell’anno elettorale sia dal presidente democratico Joe Biden, sia dallo sfidante repubblicano Donald Trump, i lavoratori dell’automotive stanno tentando di fare quel salto qualitativo delle condizioni di lavoro che mancava da tempo. E la settimana lavorativa di quattro giorni sarebbe il primo vero cambiamento. Ma c’è di più. La terza rivendicazione è il ripristino del COLA che non è una bevanda analcolica gasata, ma l’acronimo di Cost of Living Allowance che non è altro che il meccanismo di indicizzazione dei salari in vigore per decenni e cancellato negli anni scorsi. Infine, c’è la richiesta di estendere la copertura sanitaria e quella di fondi pensioni degni di questo nome. Sono temi d’attualità anche da questa parte dell’Atlantico e affrontati con sensibilità diverse a seconda delle culture politiche: con la secolare pace sociale in Svizzera che delega pragmaticamente alle parti sociali l’onere di trovare un accordo; con una certa dose di demagogia di piazza altrove.