Neutralità «dual-use»

Nei giorni scorsi il Consiglio degli Stati si è allineato alla camera bassa, decidendo di allentare le regole sulla riesportazione di materiale bellico. La normativa precedente, entrata in vigore il 21 gennaio 2022, imponeva ai paesi acquirenti una dichiarazione scritta di non riesportazione. Una legge che, a detta dei suoi critici, è invecchiata nel giro di poche settimane. L’invasione russa dell’Ucraina, infatti, ha cambiato radicalmente il contesto geopolitico e messo sotto pressione la posizione svizzera. Diversi Stati hanno criticato l’irrigidimento delle procedure, lamentando l’impossibilità di sostenere militarmente Kiev con armi o componenti di origine elvetica. Se la votazione finale confermerà questo orientamento, il paradigma sarà rovesciato: la riesportazione sarà ammessa senza più dichiarazioni di non riesportazione, mentre il Consiglio federale manterrà un diritto di veto in casi eccezionali. I sostenitori della riforma la presentano come una misura necessaria. Denunciano la drammatica crisi in cui versa la produzione degli armamenti, a causa delle continue restrizioni d’esportazione, e ribadiscono l’esigenza di disporre una propria base industriale e tecnologica per garantire una neutralità armata credibile. Gli oppositori, al contrario, criticano la possibile violazione della Convenzione dell’Aja e paventano il pericolo che le armi finiscano in zone di guerra, nonostante le norme internazionali sulla neutralità e le disposizioni del diritto umanitario.
In termini quantitativi, la produzione bellica pesa poco: meno dell’1% delle esportazioni. Eppure, torna con regolarità al centro del dibattito politico. Il motivo è semplice. Come nel caso dei traffici coloniali, dice molto più di quanto i numeri suggeriscano e di quanto comunemente si è chiamati a pensare. Proprio come nel colonialismo, è la spia della precoce integrazione elvetica nei mercati internazionali. La Svizzera non ha mai posseduto colonie né sviluppato un grande complesso militare-industriale, eppure ha avuto l’astuzia di inserirsi – a livello economico, finanziario e logistico – nel sistema coloniale e bellico globale. Tale integrazione, resa possibile da una combinazione ricorrente di fattori come la neutralità, la flessibilità produttiva e l’alta specializzazione tecnologica, ha permesso al paese di porre le basi della sua ricchezza. In altre parole, la guerra – esterna sul piano militare, ma interna sul piano economico e finanziario – ha contribuito a modellare la Svizzera.
Il Primo conflitto mondiale segna una tappa decisiva in questo processo: in numerosi settori le aziende elvetiche realizzano profitti elevati, innovano prodotti e processi e ampliano la presenza internazionale. Per assicurarsi materie prime e sbocchi, aprono filiali all’estero, stringono nuove alleanze e, nel settore bancario, edificano una piazza finanziaria di prim’ordine. Le restrizioni della neutralità obbligano le aziende a un difficile equilibrio: non esportano direttamente armi ai belligeranti, ma forniscono componenti «dual-use», cioè beni civili facilmente convertibili a uso bellico. Il crollo delle esportazioni tedesche apre spazi enormi e diverse aziende rimpiazzano i fornitori germanici sui mercati, accumulando forti utili e costruendo nuove reti internazionali. Durante il Secondo conflitto mondiale e la guerra fredda questo approccio pragmatico ha conosciuto, tra alti e bassi, una crescita tanto quantitativa quanto strutturale, entrando vieppiù in conflitto con il nuovo indirizzo di politica estera che abbraccia il multilateralismo, l’impegno umanitario e la difesa del diritto internazionale. Ciò ha portato a una rigorosa regolamentazione in fatto di esportazioni di armi, troppo severa per gli uni, troppo blanda per gli altri. Due visioni opposte, ma entrambe fondate su valide interpretazioni della neutralità, concetto intrinsecamente duttile e, per certi versi, anch’esso «dual-use». In questa contesa, il richiamo al voto diventa una tentazione ricorrente. Cercare il responso popolare, attraverso referendum restrittivi o, al contrario, iniziative volte a iscrivere la neutralità armata nella Costituzione, è certamente legittimo. È però altrettanto legittimo domandarsi se cedere a questa tentazione non sia il segno di una crisi delle istituzioni che rinunciano alla responsabilità di coerenti decisioni politiche e finiscono col delegare alle cittadine e ai cittadini, in modo disordinato e contraddittorio, risposte vitali per il nostro paese.
