Pochi, ricchi proprietari

Secondo un rapporto dell’UEFA (European Club Footballing Landscape), dal 2012 al 2022 il numero di società calcistiche europee appartenenti a gruppi che possiedono quote, di maggioranza o minoranza, in due o più club è salito da 40 a 180, e la maggior parte degli investimenti nel calcio del Vecchio continente provengono da fondi o società statunitensi, seguiti da quelli dei paesi del Golfo.
Prima di chiederci cosa gliene frega del calcio europeo agli americani, diciamo che il dato divulgato dall’UEFA è (o dovrebbe essere) inquietante per la maggior parte degli appassionati: significa che lentamente, ma non troppo, è in atto un trasferimento del controllo e del potere nelle mani di gente che col calcio non ha mai coltivato nessun rapporto, non possiede le basi culturali per gestirlo e infatti storicamente il calcio negli Stati Uniti non è mai riuscito ad attecchire. Non solo: la concentrazione delle proprietà nelle mani di pochi è qualcosa di iniquo, frena la concorrenza e le possibilità di crescita delle società subordinate, rischia persino di alterare la correttezza nelle competizioni (soprattutto quelle internazionali), crea distorsioni in un mercato che, di fatto, ha visto negli ultimi anni un’impennata dei costi spaventosa e, secondo alcune stime, qualcosa come un numero di 6500 giocatori sotto contratto con club appartenenti a questa struttura di investimento trasversale.
Torniamo indietro. Perché gli americani investono massicciamente nel calcio europeo, estendendo però la loro ragnatela di acquisizioni anche in Brasile e, c’è da scommetterlo, in futuro anche in Argentina e altri paesi latinoamericani? La risposta, stando a parecchi economisti, è molto semplice: perché il business del futuro è legato all’entertainment e il calcio in questo senso - proprio perché finora è stato gestito dagli europei in maniera molto tradizionale - ha margini di crescita enormi. In primis per i diritti televisivi, contesi fra vari nuovi attori che operano sul mercato a prezzi esorbitanti e proposti ora, sull’esempio dello sviluppo seguito dalla Premier League inglese, a infiniti mercati esteri; ma anche perché il calcio si può (si deve) far vivere dentro e attorno ad uno stadio aperto 365 giorni l’anno: un vero polo di attrazione, capace di attirare sponsor, con centri commerciali, musei, uffici, alberghi, ristoranti, centri congressuali e parchi tematici, il tutto in grado di generare ricavi alternativi all’evento sportivo.
Storicamente finanziato da associazioni di tifosi o da uomini d’affari del posto, il calcio sta vivendo una vera e propria rivoluzione basata esclusivamente su un concetto di business che cancella le origini e la storia di quello che rimane uno sport e dovrebbe avere valori differenti da quelli che stanno alla base degli asset industriali. Il tutto avviene sotto gli occhi impotenti o disinteressati della politica, che probabilmente vede addirittura con benevolenza l’accresciuto valore dell’industria sportiva, capace di generare profitti tassabili e posti di lavoro.
Ora, la domanda è se un bene che sino a ieri era considerato di interesse pubblico, portatore di valori culturali, figlio di lunga tradizione, possa essere lasciato nelle mani di imprese private interessate solamente al profitto e disposte a tutto – anche a stravolgere le regole del gioco – pur di arrivare al proprio obiettivo. Constatato che la politica se ne lava le mani, toccherebbe all’UEFA reagire, ma di fronte alla domanda se trova normale tutto ciò e la concentrazione delle proprietà nelle mani di pochi, aggirando di fatto un articolo del regolamento della stessa UEFA, il presidente Aleksander Ceferin ha risposto all’ex-calciatore Gary Neville «La domanda è interessante, dovremo riflettere e capire cosa si può fare».