Commento

Prospettive economiche mondiali incerte

Le guerre e le crescenti tensioni geopolitiche rendono pressoché impossibile decifrare le prospettive dell’economia
Alfonso Tuor
24.04.2024 06:00

Le guerre e le crescenti tensioni geopolitiche rendono pressoché impossibile decifrare le prospettive dell’economia. Recentemente il Fondo monetario internazionale ha azzardato un pronostico per i prossimi anni. Infatti prevede che l’espansione dell’economia occidentale nei prossimi cinque anni scenderà ai più bassi livelli degli ultimi decenni a causa del mediocre aumento della produttività, dell’invecchiamento della popolazione e dei deboli investimenti produttivi. Per l’FMI questi fenomeni strutturali deprimeranno una crescita già molto bassa e non potranno facilmente essere compensati dagli interventi statali, considerato il livello già molto elevato dei debiti pubblici. Anzi questi ultimi continueranno ad essere sotto pressione per la corsa al riarmo (le spese militari l’anno scorso sono aumentate del 7% raggiungendo i 2.400 miliardi di dollari), per gli investimenti necessari a combattere il riscaldamento climatico e per le spese sociali destinate a salire in un contesto di bassa crescita. Questa realtà induce a soffermarsi sulla relazione tra debito pubblico ed inflazione. Una premessa è necessaria: l’accumulazione del debito pubblico non può continuare all’infinito se il deficit annuo continua ad essere superiore alla crescita del PIL.

In tal caso, prima o poi, si pone il problema della sostenibilità delle finanze pubbliche. È quanto sta succedendo nella «drogata» economia americana dove la crescita si è aggirata attorno al 2,5% e il deficit pubblico al 7,5%. L’inflazione può però compiere «miracoli». Infatti il rapporto con i disavanzi statali non è basato sul PIL reale (depurato dal tasso di rincaro) ma da quello nominale, che è la somma di crescita reale più inflazione. Il risultato è che ad esempio il debito pubblico è sceso di dieci punti percentuali a partire dal 2021 grazie all’alta inflazione nonostante la politica fiscale accomodante del Governo. Lo stesso è accaduto per la Francia e per la Grecia, in cui è sceso addirittura del 50%. Dunque, una diminuzione dell’inflazione, un rallentamento della crescita e un aumento dei tassi di interesse rendono ancora più difficile risanare le finanze pubbliche. Ora una delle molte finalità della spesa pubblica è anche quella della redistribuzione dei redditi che è indispensabile in periodi di bassa crescita o di recessione. Quindi gli inevitabili tagli su sanità, istruzione e aiuti sociali non fanno altro che produrre maggiori tensioni sociali. Ciò è particolarmente allarmante in Paesi come gli Stati Uniti in cui la rete sociale è nettamente meno estesa che in Europa. E di questo è perfettamente consapevole James Dimon, numero uno della banca JPMorgan Chase, il quale nella sua lettera agli azionisti ha ricordato che il 40% dei cittadini americani non dispongono nemmeno di 400 dollari di risparmi per far fronte ad una malattia o a un guasto della loro auto.

La via che va per la maggiore è tagliare la spesa pubblica e sperare di vincere la lotta contro l’inflazione, sapendo che questa è la tassa peggiore per i ceti meno abbienti, nella speranza di una riduzione dei tassi di interesse e quindi del costo del servizio del debito. Questa strada cozza però con la politica di riarmo che costa molto e con i programmi di reindustrializzazione dei Paesi occidentali. Se questa strategia non dovesse aver successo è molto probabile che si punti, soprattutto negli Stati Uniti, sull’inflazione che non è scomparsa e che viene alimentata dalle politiche protezionistiche che riducono l’effetto di calmiere dei prezzi delle importazioni dei Paesi a bassi salari. Questa politica rischia di portare a quello che temono molti, ossia una crisi del sistema monetario internazionale, simile alla decisione di sganciare il dollaro dall’oro annunciata dal presidente Richard Nixon il 15 agosto 1971 seguita da un decennio di stagnazione ed inflazione, la famosa stagflazione.