Il commento

Ricerca, la frenata di Washington ha un costo

Negli atenei, più in generale nella formazione universitaria, Donald Trump riconosce l’origine dell’ideologia progressista, della cultura woke e dell’inclusione
Paolo Galli
26.05.2025 06:00

Gli studenti stranieri a Harvard sono 6.800, il 27% del totale, in aumento di otto punti nel giro di appena quindici anni. Ma al di là dei numeri, questi studenti - che arrivano da ogni parte del mondo, anche dalla Svizzera, persino dal Ticino - contribuiscono a garantire fondi all’ateneo stesso e, soprattutto, a dare sempre nuova linfa alla ricerca e, in ultima analisi, all’innovazione. La diversità è ricchezza, in ambito accademico. L’internazionalità, la moltiplicazione delle origini, la trasversalità degli approcci, il libero pensiero, l’inclusione: sono questi i fattori che fanno delle università i motori della società nell’ambito del progresso. Lo sottolineava lo stesso Alan Garber, presidente di Harvard, nella sua lettera aperta dello scorso 14 aprile: «La libertà di pensiero e di ricerca, insieme al costante impegno del Governo nel rispettarla e proteggerla, ha permesso alle università di contribuire in modo fondamentale a una società libera e a vite più sane e prospere per le persone di tutto il mondo». E venerdì ha ribadito: «Senza i suoi studenti internazionali, Harvard non sarebbe Harvard».

Garber, ad aprile, rispondeva una prima volta a Donald Trump, difendendo l’istituzione e, più in generale, il mondo della formazione universitaria e della ricerca, ma anche sottolineando il suo sostegno a una comunità vivace che possa «esemplificare, rispettare e accogliere le differenze». Le differenze però, evidentemente, non sono proprio ben viste dall’attuale amministrazione americana. Trump, per spiegare le proprie azioni nei confronti degli atenei statunitensi - ultima delle quali, la manifestata volontà, ribadita ancora ieri, di impedire agli studenti stranieri di iscriversi ad Harvard, ma anche di espellere quelli già iscritti -, si aggrappa alla questione dell’antisemitismo, ma la sua ostilità ha radici più profonde. Negli atenei, più in generale nella formazione universitaria, il presidente riconosce l’origine dell’ideologia progressista, della cultura woke e dell’inclusione. Non coglie però, o finge di non cogliere - ma non avrebbe senso -, l’importanza di una spinta al domani. Nel rivendicare un ritorno al passato, vede anzi un ostacolo nel potere innovativo e aperto di università come Harvard.

Per l’Europa è, allora, una grande occasione. Già il 29 aprile, Ursula von der Leyen aveva sottolineato: «Vogliamo che scienziati e ricercatori di tutto il mondo facciano dell’Europa la loro casa». La presidente della Commissione europea ha dettato una precisa strategia, le ha dato un nome, «Choose Europe», e ha promesso lo stanziamento di 500 milioni di euro - sotto forma di borse di studio e progetti - per creare posti di ricerca. «Consideriamo fondamentale la libertà della scienza e della ricerca, non solo perché è un valore fondamentale per noi, ma anche perché è così che prosperano l’eccellenza e l’innovazione», aveva aggiunto. Il motore americano, però, era decisivo a prescindere, proprio per la sua forza propulsiva e attirante. Una questione di investimenti ed esperienze, di volontà e competitività. Spegnere questo motore avrà un costo, per la società tutta. Per le generazioni del futuro.

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