Se su tutto ha prevalso Machiavelli

di GERARDO MORINA - In uno dei tanti epigrammi dettati dalla sua acutezza di umorista e osservatore della realtà italiana, Ennio Flaiano scrisse che l'Italia è quel Paese dove il modo più semplice di unire due punti è considerato l'arabesco. Nella storia della Repubblica non rinunciarono all'arabesco due presidenti entrambi di origine partenopea e principi del foro, Enrico De Nicola e Giovanni Leone. Grazie al suo credo liberale, seppe farne a meno il piemontese Luigi Einaudi. In quanto a Giorgio Napolitano, anch'egli nativo di Napoli ma fin dalla gioventù più avvezzo al Lungotevere, diciamo che per lui l'arabesco ha rappresentato una grande tentazione, ma alla fine, considerando le divagazioni in cui può incorrere un napoletano dilatando i tempi necessari per andare, poniamo,da via Caracciolo a via Toledo, ha prevalso la linea retta, la più decisa e veloce. Non necessariamente la migliore, ma quella improntata al machiavellismo e allo «spirito del tempo» di hegeliana memoria. Riuscirà questa impronta a salvare Napolitano dal giudizio imparziale degli storici? Se privilegiamo i meriti indubbi sui demeriti che gli vengono rinfacciati da una parte degli italiani, è cosa giusta riconoscere a Napolitano una serie di risultati positivi. A lui il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli attribuisce i connotati di un buon presidente, tale da incarnare «un'istituzione forte che è servita a compensare la congenita precarietà degli esecutivi». Un presidente senza il cui intervento,afferma sempre De Bortoli, «oggi l'Italia sarebbe nelle condizioni della Grecia». In altre parole un uomo che ha difeso la centralità delle istituzioni, minate dagli scandali e dal populismo. Un presidente che ha continuamente incitato alle riforme, ancora tuttavia sul cammino dell'attuazione, e gestito con fermezza i rapporti con il potere giudiziario. E infine una figura che, anche grazie ad un graduale atteggiamento aperto e cosmopolita con il quale è riuscito a riscattarsi dall'iniziale rigidità di comunista cresciuto all'ombra delle Botteghe Oscure, ha saputo meritarsi una credibilità internazionale. Controversa è invece la sua fama di mancato garantista di tutti e di instauratore di una sorta di monarchia repubblicana, difetti che forniscono miccia ai detrattori, di destra e di sinistra. Da una parte alcuni non gli perdonano il «golpe» con cui Napolitano, soggiacendo alle richieste di cancellerie internazionali, banche e istituzioni europee, defenestrò, con la nomina di Monti a capo di un governo tecnico, un leader eletto dal popolo come Silvio Berlusconi, aprendo il cammino a successivi presidenti del Consiglio nominati e non eletti come Enrico Letta e Matteo Renzi. Spesso, tuttavia, si dimentica che parallelamente fu lo stesso Napolitano nel novenbre 2010 a salvare Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo, e che l'interventismo negativo rinfacciato al presidente della Repubblica ebbe un precedente equivalente se non peggiore in quello rappresentato a suo tempo dalla partigianeria del predecessore Oscar Luigi Scalfaro. Gli strali provenienti da sinistra riguardano invece principalmente il fatto che Napolitano avallò tutte le leggi a lui presentate, soprattutto a suo tempo da parte del governo Berlusconi, senza opporvi rilievi di incostituzionalità. Critica alla quale si aggiunge quella del presunto coinvolgimento di Napolitano nella trattativa Stato-mafia in merito a cui, sollevando un «conflitto di attribuzioni», il presidente riuscì ad ottenere la distruzione dei file. Può la «realpolitik» esercitata da Napolitano per un presunto bene del Paese fargli perdonare i suoi errori? Insieme agli elogi, la domanda riccorre nel momento in cui i Grandi Elettori si apprestano nelle prossime settimane a votare il nuovo presidente della Repubblica. Che, uomo o donna, dovrà essere una figura ampiamente condivisa da tutto l'arco parlamentare,con la necessaria capacità ed esperienza politica ma soprattutto con il pregio di incarnare una persona «super partes». Diventando, anziché nascere, presidente della Repubblica e facendo tesoro delle esperienze dei suoi predecessori. Una figura in origine scialba ma non troppo, saggia e incline alla comunicazione, in grado di maturare costantemente occupando il Palazzo che fu dei papi e dei Savoia. L'Italia ne ha bisogno e attende, pur sapendo che non si tratta di un Conclave perché, diversamente da quanto avviene in Vaticano, la scelta del dodicesimo inquilino del Quirinale non si compie con l'intercessione dello Spirito Santo.