Seppellire le scorie, ma non le domande

Scegliendo la strada dell’energia nucleare, ad un certo punto abbiamo anche scelto di raccoglierne l’eredità. Un’eredità scomoda, combattuta, ma conosciuta fin dagli albori di questa prodigiosa tecnologia: le scorie radioattive.
Finora si sono provati diversi modi per stoccare questi materiali. Dai più improvvisati e folli (depositare i barili in fondo al mare) a quelli più razionali, come l’immagazzinamento in superficie in grandi strutture, che spesso sorgono nei pressi delle stesse centrali. Una via, quest’ultima, provvisoria ma rischiosa: basti pensare alla guerra in Ucraina, conflitto che non ha risparmiato neppure la più grande centrale nucleare del Continente, Zaporizhzhia. Impensabile, quindi, stoccare per secoli questo tipo di rifiuto.
L’unica alternativa è dunque quella di interrarli a grande profondità. Sono i cosiddetti depositi geologici in strati profondi. Parecchi Paesi stanno cercando da tempo l’area adatta per mettere a dimora le proprie scorie, tuttavia a oggi nessun sito è stato attivato. La ricerca geologica e le analisi prendono decenni, sì, ma anche la contrarietà delle popolazioni toccate dai siti è un aspetto critico, e che può distruggere questi progetti. L’esempio arriva dal fallimento del mega-deposito di Yucca Mountain, nel Nevada, colato a picco per motivi tettonici, logistici, politici e di resistenza popolare.
In Svizzera, la ricerca del sito giusto si è protratta per mezzo secolo. La Società cooperativa per lo stoccaggio delle scorie radioattive (NAGRA) ha appena proposto alla politica federale l’area più idonea, mettendo la Confederazione fra i Paesi più avanti rispetto alla costruzione di depositi definitivi di scorie nucleari. «La geologia ha parlato», hanno commentato gli esperti durante la conferenza stampa di presentazione. Ma il traguardo è ancora lontano: si parla del 2050, quando finalmente dovrebbero essere stoccati primi rifiuti.
Del resto, in ambito nucleare, non c’è nulla di immediato, o di facilmente risolvibile. Basti pensare che il decadimento dei rifiuti ad alta radioattività prende centomila anni. Centomila anni prima che questo materiale venga reso totalmente innocuo. Un periodo di tempo lunghissimo, persino inafferrabile. E che spalanca le porte a un problema etico: ammesso e non concesso che l’uomo abiti ancora la Terra, che civiltà troveremo? Soprattutto, quale lingua parlerà? Il tema è quello della trasmissione della conoscenza dell’oggi agli abitanti di un domani lontanissimo. Se già abbiamo faticato a decifrare i geroglifici egizi (risalenti a circa cinquemila anni fa), come possiamo pensare di lasciare tracce comprensibili alle civiltà che popoleranno il mondo fra centomila anni?
A questo punto, ci troviamo di fronte a un bivio. Tentare di avvertire i posteri o cercare di non lasciare traccia? La Finlandia, il Paese più vicino a inaugurare un deposito «eterno» di scorie nucleari, per risolvere il problema potrebbe scegliere una via intermedia. Una volta chiuso e sigillato il sito sotterraneo di Onkalo (si parla del 2120, una tempistica simile a quella svizzera), le autorità potrebbero sbarazzarsi di tutte le strutture in superficie. Rendendo così indistinguibile il sito dal resto dell’ambiente. Non verrebbe quindi trasmesso alle future generazioni quel «segreto». Perché l’uomo è per sua natura curioso: meglio dunque togliere dalla sua vista ogni tentazione. Un team di linguisti e scienziati, tuttavia, ha elaborato un codice per comunicare la pericolosità del sito nel caso in cui una civiltà di un futuro lontano scoprisse il deposito.
Un sentiero non nuovo, già battuto negli Stati Uniti a inizio anni Ottanta proprio con lo scopo di inventare una serie di messaggi capaci di attraversare i millenni. L’idea è quella di disporre di vari livelli di avvertimento: frasi in più lingue, pittogrammi, utilizzo di barriere architettoniche ostili. Tentativi per dissuadere chi verrà dopo di noi dal mettere le mani su qualcosa di incolore, inodore ma potenzialmente pericolosissimo. L’unica certezza, però, è che nessuno può sapere cosa accadrà nei prossimi centomila anni. Sia a livello geologico, sia antropologico.
La civiltà contemporanea è la prima ad aver inventato prodigi tecnologici capaci sì di produrre grande benessere, ma anche effetti «indesiderati» per un tempo pressoché infinito. L’eredità dell’energia nucleare – in attesa della fusione, «l’energia di fine secolo» secondo gli esperti – è pesante. Ed è giusto farci i conti, con onestà, trasparenza e processo partecipativo. Anche nei confronti di chi verrà dopo di noi.