Tra dazi e diplomazia: ieri e oggi

Parigi, cattedrale di Notre-Dame, 18 novembre 1663. Luigi XIV, il Re Sole, rinnova con una solenne cerimonia l’alleanza perpetua con la Confederazione, rappresentata da una folta delegazione. L’accordo, negoziato per un decennio, è cruciale per i cantoni: garantisce la riduzione dei dazi e facilita l’accesso delle merci svizzere al mercato francese. Colpisce il contrasto visivo: i francesi sfoggiano abiti sontuosi, gli svizzeri si presentano sobri, in nero e senza parrucca. Portano doni simbolici - armi finemente lavorate, formaggi, vino - non regali di lusso. Le autorità elvetiche, repubblicane e diffidenti verso l’ostentazione, evitano ogni impressione di voler comprare favori. È il re, come impone l’etichetta monarchica, a elargire i doni più ricchi. L’esempio citato è emblematico. Nata come Confederazione di comunità repubblicane, senza corte né aristocrazia, la Svizzera ha sempre vissuto la diplomazia come un linguaggio estraneo, proprio delle monarchie centralizzate. Anche dopo il 1848 la politica estera continua a essere marginale: la guida del Dipartimento degli affari asteri è affidata al presidente della Confederazione. Ne deriva un sistema in cui, di fatto, la direzione della diplomazia cambia annualmente, impedendo la costruzione di una strategia coerente a lungo termine. La neutralità rafforza questa impostazione, mentre la scena internazionale è occupata soprattutto dall’economia: banchieri, commercianti, compagnie assicurative e imprenditori dell’industria esportatrice costruiscono reti globali molto più solide delle iniziative ufficiali.
Questa «allergia» alla diplomazia di corte avvicina la Svizzera agli Stati Uniti. Due repubbliche che condividono la diffidenza verso la diplomazia come rituale di potere e un’identica fiducia nella forza del commercio come strumento di relazione internazionale. Due modelli differenti, ma accomunati dall’idea che il potere debba restare vicino al popolo e lontano dalle forme aristocratiche della politica. Dal XX secolo la Svizzera comprende la necessità di una diplomazia stabile. La politica estera non è però dominio esclusivo del Dipartimento degli affari esteri. La diplomazia è coinvolge numerosi attori, dal Dipartimento dell’economia a quello della Difesa. A ciò si aggiunge un ritorno in auge del presidente e l’influenza costante degli attori economici. Ne risulta una politica estera frutto del compromesso tra interessi contrastanti, più che una coerente emanazione del ministero guidato da Ignazio Cassis. L’ascesa al potere di Trump sembra spostare indietro le lancette della storia: diffidenza verso la diplomazia ufficiale, ricorso diretto al popolo, centralità della personalità politica. E la Svizzera sembra adeguarsi, rispolverando il «legame speciale» ottocentesco. Nel silenzio assordante del ministero degli Esteri, è la presidente della Confederazione a prendere in mano il dossier statunitense, lodando il discorso populista del vicepresidente Vance a Monaco come «molto svizzero» e telefonando direttamente a Trump.
Questa strategia sembra viziata da un equivoco: la politica trumpiana è del tutto avulsa dai canoni diplomatici tradizionali. Lo ha spiegato lui stesso dopo la telefonata con Keller-Sutter: «Non è una questione tra Stati, è una questione di personalità». Washington, Studio Ovale, 4 novembre 2025. Sei imprenditori svizzeri - tutti uomini - incontrano Trump nel sancta sanctorum della Casa Bianca. Non si presentano a mani vuote. Al contrario dei loro antenati, non scelgono la sobrietà e non evitano il sospetto di voler ottenere favori. Non si tratta di un negoziato, ma - come da loro stessi affermato - di «pleading», di una supplica. E il presidente, il «Dealer-in-chief», sembra apprezzare. La scena suggerisce che, se non è una questione tra Stati, non è neppure una questione da diplomatici: ciò che interessa a Trump diventa ciò che interessa agli USA. Il 14 novembre 2025 il «pleading» pare dare i suoi frutti. A quali costi e quali concessioni, non è chiaro. Quel che è chiaro è che, quando i favori si trattano in privato, il conto lo paga sempre il pubblico, e spesso è salato. Con questo articolo, lo storico e scrittore Maurizio Binaghi inizia la collaborazione con il Corriere del Ticino in qualità di commentatore. Binaghi è autore, tra gli altri, del libro «La Svizzera è un Paese neutrale (e felice)».
