Un segnale importante, non solo ai giornali

Il Gran Consiglio ha approvato ieri a maggioranza un sostegno alla carta stampata di 500 mila franchi all’anno per quattro anni. È così stato accolto il rapporto di minoranza firmato da Centro e sinistra che chiedeva al Governo di elaborare un messaggio dettagliato sulla proposta di aiuto provvisorio ad un settore, quello dei giornali in abbonamento, confrontato con il crollo degli introiti pubblicitari e il calo dei lettori. Va precisato che, questa volta, in discussione non c’era un sostegno diretto o sistemico alle testate ma una serie di misure poco costose, come ve ne sono di simili in altri settori, finalizzate a semplificare la promozione di un giornalismo di qualità specialmente presso le fasce più giovani.
Malgrado le divisioni tra i vari partiti e al netto di possibili referendum già velatamente minacciati, la politica ticinese ha così finalmente dato un importante segnale non solo agli editori, ma anche e soprattutto al pluralismo e alla democrazia. Come più volte ribadito su queste colonne, infatti, la questione dei media locali cartacei riguarda ad ampio raggio il tipo di informazione e di politica che vogliamo offrire in Ticino per i prossimi anni. Due sono le evidenze da cui partire. La prima: i media tradizionali sono in crisi non certo perché è venuto a mancare il loro peso sociale, culturale e politico, che resta ragguardevole, ma perché si è creato un mercato che tende a essere ostile all’informazione ragionata e presidiata, e a favore delle notizie usa e getta o altamente polarizzanti. È una deriva culturale che è sotto gli occhi di tutti e che è stata drammaticamente aggravata dalla capillare invasività dei colossi americani di internet. Gli stessi che, di recente, sono stati condannati in sede europea a sanzioni miliardarie per abuso di posizione dominante e per aver distorto, con pratiche scorrette di ogni tipo, la concorrenza nel settore pubblicitario.
Si tratta di una «invasione» commerciale senza precedenti storici, poiché agisce senza scrupoli e con mezzi che all’inizio restano, volutamente, impercettibili od oscuri. Questi colossi digitali drenano la pubblicità fin dove gli è possibile ma non solo: operando tecnologicamente sui contenuti stanno anche stravolgendo le basi del giornalismo e, quindi, della nostra democrazia.
Diciamolo apertamente: anche in Ticino, purtroppo, è passato in alcuni – non in tutti, per fortuna, e il voto di ieri lo dimostra - il messaggio che per fare politica, con poco impegno e a costo zero, basta affidarsi ai social media e a quei mezzi virtuali che tutto favoriscono fuorché la realtà locale, la partecipazione riflessiva delle persone e un vero dialogo politico-elettore.
La seconda evidenza, e siamo ottimisti, è una emanazione diretta della prima: lentamente, dopo l’ubriacatura social, i politici più a contatto con la propria gente si stanno accorgendo che non è mai una buona idea mettere nelle mani degli algoritmi stranieri la promozione del proprio programma. Tanto che quando c’è da fare comunicazione seria, le prime a essere interpellate con richieste di attenzione e di spazi, di ospitalità e visibilità, sono proprio le testate tradizionali, che con grandi sforzi e una dispendiosa rete di giornalisti presidiano ancora il territorio rimanendo a contatto ogni giorno con i residenti, con la cronaca, con i servizi e con i disservizi locali. Le misure di cui si è discusso in Gran Consiglio sono innanzitutto questo: la presa di coscienza che un simile modo di fare giornalismo è quello più rispettoso della nostra realtà.
A Berna si sono già chinati sul problema e tra alti e bassi hanno dimostrato di aver inteso quanto sia importante traghettare questa informazione di qualità verso il futuro e verso i giovani, cui lasceremo in eredità, si spera, la nostra democrazia così come la conosciamo. Anche in Ticino. In questo contesto, è innegabile che i media tradizionali siano un servizio pubblico come mai potranno esserlo i social media o le altre forme di giornalismo mordi e fuggi. È questo che ha sancito, ieri, il Parlamento.