Tra il dire e il fare

Unione europea in buone mani

Il commento di Alessio Petralli
Alessio Petralli
Alessio Petralli
04.07.2022 06:00

Mai visto niente di simile prima d’ora in televisione. La storia che viene colta nel suo farsi ai massimi livelli. Il massimo livello ha due protagonisti: Emmanuel Macron e Vladimir Putin nel colloquio telefonico del venti febbraio, quattro giorni prima che scoppiasse la guerra.

Macron dall’Eliseo tenta di convincere Putin a partecipare a un incontro con Biden (dichiaratosi disponibile) a Ginevra. Putin pare dichiararsi pure disponibile, ma confessa a Macron di trovarsi in palestra per allenarsi; dovranno essere coinvolti i suoi consiglieri.

Finisce la telefonata e Macron è abbastanza soddisfatto: riunire Biden e Putin per scongiurare la guerra sarebbe davvero un bel colpo. La riunione però non si farà e sappiamo quel che è successo.

Passati quasi quattro mesi, sul treno di ritorno da Kiev a metà giugno, Macron rilascia una breve intervista a cuore aperto, in cui emerge una posizione chiara ma delicata da parte francese che, contrariamente a Johnson e Biden, non vuole umiliare la Russia («Il ne faut pas humilier la Russie»). Il treno delle ferrovie ucraine è quello in cui è stata scattata la nota fotografia nella «carrozza business» un po’ vintage che vede Macron a capotavola, in maniche di camicia bianca, fra Draghi e Scholz.

Il colloquio fra Macron e Putin di cui dicevamo all’inizio è oggi di dominio pubblico ed è contenuto in un reportage di quasi due ore passato su France 2 giovedì scorso («Un Président, l’Europe et la guerre»). Guy Lagache, autore di questa straordinaria inchiesta televisiva, è stato oltre che bravo molto fortunato, poiché all’inizio lo scopo era quello di rendere conto in maniera divulgativa del semestre europeo con la Francia alla presidenza del Consiglio dell’UE. Mai si sarebbe aspettato di ritrovarsi, prima a Mosca poi a Kiev, a fianco di un Macron filmato «con i piedi», come ammette lo stesso Lagache, in certi casi grazie a un semplice iPhone.

Da questo documentario Macron esce come un gigante della politica e l’UE sa di poter contare su un vero leader. Intendiamoci, Macron è la star predestinata di questa inchiesta unica, frutto di un abilissimo lavoro di montaggio estratto da non si non si sa quale mole di girato. Ma vi è chi interpreta un altro ruolo notevole: non si tratta del ministro degli Esteri Le Drian (con una sola fugace apparizione), bensì di Emmanuel Bonne, personaggio chiave della cellula diplomatica dell’Eliseo, che tra l’altro se la intende a meraviglia con un consigliere privilegiato di Scholz, Jens Plötner, che parla un francese perfetto. Ecco, siamo alla fondamentale componente linguistica delle diplomazia, che va dall’ottimo inglese di Macron, usato dal presidente con molti interlocutori del documentario (Draghi, Johnson, Scholz, e una sola volta anche con Zelensky) al russo di Putin, mediato verosimilmente da una traduzione consecutiva della quale non è dato di cogliere le modalità nel corso del documentario.

Nel colloquio telefonico dell’ultima chance (mancata) con Putin, al di là di qualche studiato inasprimento dei toni, si capisce che i due hanno una buona sintonia, e che Macron vuole a tutti i costi valorizzare e tenere desto questo canale di comunicazione.

Un canale che Macron deve però tenere bene aperto anche con i francesi. Soprattutto quando dovrà rivolgersi ai suoi «chers compatriotes» in una breve ma importantissima comunicazione sulla guerra ormai cominciata.

Durante la registrazione di questa allocuzione vi è l’unica ma significativa apparizione della moglie Brigitte, che con dolce fermezza («Pardon, mon coeur») chiede che si rifaccia tutto perché manca il tono («Il n’y a pas de ton»). E sappiamo bene come sia «le ton qui fait la musique». Macron ha fatto di tutto per suonare uno spartito di pace, purtroppo non riuscendovi. È una grande fortuna che in tempo di guerra l’Europa abbia un giovane leader riconosciuto, così pieno di energia, capace e colto. Sarebbe stato bello accoglierlo a Lugano.